Il leone è tornato a ruggire: dopo due edizioni minate dalle restrizioni Covid, nonostante sia stato l’unico dei grandi festival internazionali a tenersi sempre in presenza, quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia si è mostrata in tutto il suo splendore.
Edizione numero 79 e novantesimo anno: la differenza numerica è dovuta al fatto che all’inizio aveva cadenza “biennale”, agli anni di fermo durante la Seconda Guerra Mondiale e a quelli della contestazione negli anni Settanta. Ma resta una tradizione gloriosa, che ha alternato i fasti dei red carpet alle turbolenze della Storia che quest’anno sono di nuovo portate sugli schermi.
Tra i film in concorso nelle varie sezioni emerge infatti il presente con le sue criticità: la pandemia, la guerra, le oppressioni, gli ostacoli all’affermarsi degli individui, e delle donne in particolare, nella loro unicità. Su tutto sembra aleggiare, come un presagio e una compagna silenziosa e fedele, la morte: tanti personaggi ne hanno paura, o al contrario la corteggiano fino ad abbracciarla.
In una società che per anni si è impegnata a santificarla, o a negarla (proprio lei, l’unica cosa inevitabile), il trauma di ritrovarsi improvvisamente di fronte alla sua evidenza, per colpa del Covid e ora della guerra alle porte, non poteva non avere ripercussioni. Così la Mostra, che come sosteniamo da tempo, è la vera cartina al tornasole della società, ha raccolto questo sentire, grazie al suo connubio straordinario di cinema, arte e internazionalità. Le inquietudini dell’Occidente, che in questo caso sono universali, si coagulano così intorno al tema della morte.
White Noise
di Noah Baumbach
Adattamento del romanzo omonimo di Don DeLillo, esempio di letteratura postmoderna e vincitore del National Book Award, White Noise, il film di Noah Baumbach che non a caso ha inaugurato il festival, ci presenta una coppia di protagonisti della classe media intellettuale dell’America anni ’80, Adam Driver e Greta Gerwig.
Il rumore bianco sotterraneo che li circonda e che ammettono con difficoltà è proprio la paura della morte, inizialmente irrazionale, poi fattuale e infine quasi filosofica: è il senso dell’inevitabile finitezza della vita umana.
Il loro amore, le loro certezze, le loro posizioni nella società, tutto è destinato a finire un giorno, e questa consapevolezza li rode internamente (vedi il trailer).
The Whale
di Darren Aronofsky
Da una parte c’è chi ha paura della morte e all’opposto chi quasi la cerca. come il protagonista di The Whale di Darren Aronofsky, magistralmente interpretato da un ritrovato Brendan Fraser più che meritevole di Oscar. Il suo Charlie è un professore che a seguito di un drammatico lutto è diventato gravemente obeso. Per tutto il film lo vediamo corteggiare la morte in un gioco di attrazione-repulsione.
Una parte di lui è vitale, riesce ad emozionarsi per un uccello che becchetta briciole sul suo davanzale e per gli sprazzi di contatto umano che bussano alla sua porta. Ma a prevalere è un crescente senso del peso, morale prima ancora che fisico. L’uomo avverte che la sua esistenza pesa sui suoi pochi prossimi, a partire dall’amatissima figlia (la Sadie Sink di Stranger Things).
Giunto al punto di non ritorno, per lui l’opzione più desiderabile è la morte, liberazione e unico dono possibile per la figlia, cui potrà almeno lasciare i suoi risparmi e soprattutto l’insegnamento più importante. È l’importanza della verità, anche brutale e scomoda ma comunque essenziale per i rapporti umani, per sentire, per provare emozioni, che in fondo è ciò che ci rende vivi (vedi il trailer).
Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdad
di Alejandro G. Iñarritu
Sospeso fra questi due estremi, e fra vita e aldilà, volteggia con ritmo e grazia immaginifica Alejandro G. Iñarritu con il suo Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdad. Il Bardo del titolo è quella sorta di limbo della tradizione buddhista, stato liminale tra la morte e la rinascita (lo stesso del romanzo di George Saunders).
Il protagonista Silverio (Daniel Giménez Cacho), alter ego del regista, vuole essere “presente nella sua stessa vita”, ma al tempo stesso vi passa attraverso come un fantasma. L’intero film è una danza, caotica e vitale, equivalente filmico del Dia de Los Muertos messicano, in cui vivi e morti e tutto quello che c’è nel mezzo convivono sullo schermo. Felliniano, a partire dal look un po’ anonimo di Silverio che rimanda al Mastroianni de La Dolce Vita e 8 e ½, gioca fin dalle prime scene con il senso delle cose che muoiono ma non troppo. Perché in fondo ci sono tanti modi di morire, incluso l’emigrare.
Living
di Oliver Hermanus
Un altro modo è annullare la propria individualità per sparire in un quotidiano grigiore fatto di routine, burocrazia e divise borghesi: come fa il protagonista di Living, splendido remake dell’adattamento di Akira Kurosawa de La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj.
Il regista Oliver Hermanus costruisce un meccanismo visivo affascinante che esalta la splendida sceneggiatura del premio Nobel Kazuo Ishiguro, delicata e pregnante, toccante nella sua capacità di andare all’essenza di cosa vuol dire essere umani in una società ordinata ma spersonalizzante.
Il protagonista Mr. Williams, splendidamente e con la consueta profondità impersonato da Bill Nighy, riscopre il piacere di vivere quando si trova di fronte alla propria condizione mortale. Dopo un periodo di confusione e di brama di vita che riesce solo ad attingere da altri, capisce finalmente che si può vivere davvero solo dando al prossimo. E quel dare diventa un esempio, un rammentare non soltanto la presenza incombente della morte ma soprattutto l’importanza della vita (vedi il trailer).
Molto interessante il filo interpretativo che unisce i film recensiti; molto utili anche gli approfondimenti ed i collegamenti ai riferimenti cui si sono ispirati i registi