Jonas Hassen Khemiri è un talentuoso scrittore di origini tunisine, nato a Stoccolma nel 1978, autore teatrale emergente, vincitore del prestigioso Augustpriset con Tutto quello che non ricordo nel 2015, e finalista al National Book Award nel 2019 con La clausola del padre.
Per apprezzare sino in fondo Chiamo i miei fratelli si deve forse iniziare dalla Lettera aperta in appendice, inviata nel 2013 al Ministro della Giustizia, Beatrice Ask, in occasione del discusso REVA (Piano di Implementazione Efficace e Garantista), promulgato dal Governo svedese per rendere più efficace il processo di espulsione degli immigrati irregolari. Un’espulsione fatta in base a controlli documentali fondati “sull’aspetto fisico straniero” delle persone.
Il romanzo, uscito in Svezia nel 2012 e solo ora tradotto in Italia, è in qualche modo la rielaborazione letteraria di quella lettera aperta in cui Khemiri invita provocatoriamente Beatrice Ask a “scambiarsi pelle ed esperienze per 24 ore”. Tanto dura il tempo della storia narrata, ispirata ad un reale fatto di cronaca. La lettera è diventata virale sui social ed è stato uno degli articoli più condivisi nella storia della Svezia.
Lo scrittore ripercorre momenti del sofferto vissuto personale, fra dolorosi moniti paterni (“quelli come noi devono essere mille volte più in gamba degli altri”) e fumetti con orientali misteriosi, esotici, infidi. Agli stereotipi filmici di “uomini dalla pelle scura che violentano, mentono, rapinano”, si aggiunge la vergogna atavica di essere tenuto d’occhio nei negozi di CD che il suddetto orientale non compra mai, ma ruba sempre. E controlli perché “il jeans ha troppe tasche e troppa è la melanina nella pelle”.
In tutto ciò lo Khemiri si chiede – e sembra chiedere a noi – quando una percezione personale diventa razzismo, discriminazione, oppressione e quanto pesi trovarsi di fronte lo sguardo di una comunità che esige anzitutto che si dimostri la propria innocenza, presupponendo sistematicamente che “tu sia un altro”.
In una città indefinita, tra chiese, statue di re e piste ciclabili, che si intuisce essere Stoccolma, è scattata “l’allerta quattro” in seguito ad un’autobomba. Panico, strade vuote, semafori lampeggianti, vetrine spente, sfollagente, scudi, lacrimogeni e la descrizione di un sospettato che “assomiglia a”, che poteva essere, e se fosse…
Amor inizia un viaggio nella paura
Amor è colto, ha ottimi voti al Policlinico e la sua kefiah (il copricapo arabo) orgogliosamente esibita, ha il vezzo di attribuire agli amici il nome degli elementi chimici e di esprimere con grafici l’intensità delle emozioni. Per lui inizia un viaggio dissociato nei meandri di paure mai rimosse, frustrazioni inconsce, umiliazioni latenti, frutto di un’emarginazione razziale subita, anche se mai apertamente dichiarata, da parte dei “biondi” in uniforme, vestiti dei loro rancorosi pregiudizi in nome dei quali certi esseri umani sono “somaticamente” pericolosi e “illegali”.
Trovandosi in centro per una banale commissione (“lo stanno seguendo? Cerca di seminarci… bisogna apparire come gli altri, i normali”), è angosciosamente assalito dai ricordi di un’adolescenza ribelle per rabbia e disperazione, mai per fanatismo ideologico, fatta di birre e Marlboro fuori da discoteche interdette.
Attorno a lui presenze che lo cercano freneticamente come Shavi, l’amico d’infanzia “troppo basso per giocare a basket, troppo smilzo per fare a cazzotti”, altruista e capace di far sentire il mondo più leggero come l’Elio. O Ahlem, la cugina tenace e combattiva che ha trovato se stessa fra Maometto e Marx. “Magnesio infiammabile” allo stato puro è Valeria, desiderata e mai posseduta. C’è anche la nonna defunta evocata dall’Oltre, dove “c’è tutto quello che puoi immaginare e anche qualcosa in più”, dove si può cambiare l’età, rivivere il passato e magari tornare a camminare accanto a un nipote su cui “soffia il vento minaccioso dell’odio”.
Chiamo i miei fratelli…
Infine ci sono loro, i fratelli: consanguinei, ma ad un tempo quelli dell’intera famiglia musulmana che sono ossessivamente interpellati e, di volta in volta, invitati a confondersi con la folla, camminare con naturalezza, ringraziare e chiedere scusa di esistere.
Fratelli che devono sparire ed esserci insieme, o che, al di là di ogni invisibilità vigliacca, devono farsi notare per “entrare a testa alta in un futuro di confini dissolti”, difendendo il diritto di essere quello che si è.
Il fatto è che tutto, in questo originale plot, è connotato per alimentare ambiguità e suggerire una decifrazione non univoca dell’intreccio. Per un verso si percepisce nettamente il dramma – quotidiano e storico – scaturito dalla mancata integrazione nell’emancipata Svezia, di quanti hanno la sola colpa di appartenere a minoranze etniche non autoctone. D’altro canto è pur vero che lo scrittore per primo sembra voler instillare nel lettore il dubbio sul comportamento del protagonista. Lo fa attraverso inequivocabili indizi: un coltello messo in tasca “per nostalgia”, la sua volontà di fuggire e dimenticare “questa storia”, un biglietto ferroviario già acquistato, gli improvvisi, repentini cambi di direzione durante il percorso, l’attribuzione ad un alter ego fantasma dei gesti criminali: “la persona sospetta era il mio riflesso”.
C’è poi in Chiamo i miei fratelli, il ricorso sistematico ai puntini sospensivi che sfumano enunciati elusivi o, viceversa, molto chiari “vi ammazzerò come cani…”, sino alla clamorosa, nevrotica e per questo poco attendibile confessione di essere il responsabile dell’atto terroristico.
Qual è il sottile confine fra paranoia e realtà?
Sin dove l’incubo di venire accusato, braccato, recluso ingiustamente può spingere il cortocircuito mentale?
A tradurre l’antitrama caleidoscopica e spiazzante di Chiamo i miei fratelli, c’è una personalissima tecnica espressiva del breve romanzo che, probabilmente, può contribuire a renderne ostica, se non sgradita, la lettura. Il ritmo sincopato delle frasi separate tipograficamente da spazi bianchi, il vorticoso alternarsi di punti di vista nei dialoghi con fulminei passaggi tra le riflessioni di entrambi gli interlocutori, in una sovrapposizione concitata di voci narranti interne ed esterne che scandiscono l’ininterrotto monologo interiore di Amor…
Ununtrio, numero atomico 113, elemento sintetico non ancora confermato.