L’intraprendente casa editrice Le Assassine, specializzata nella scoperta di scrittrici originali o ingiustamente dimenticate, ci ha proposto il bel romanzo La casa al civico 6 dell’ex restauratrice e scrittrice ceca, Nela Rywicová.
Nella città ceca di Ostrava…
Probabilmente in Italia pochissimi conoscono la città ceca di Ostrava, a parte qualche irriducibile tifoso del Napoli che patisce ancora gli incubi al ricordo dell’allucinante trasferta compiuta fin lì dalla squadra azzurra nel dicembre del 1974, per una partita di Coppa Uefa con la squadra locale, il Banik Ostrava. Di ritorno da quell’avventura, il Napoli subì una pesante sconfitta. Perse per 2 a 6 nella successiva partita di campionato con la Juventus, compromettendo in modo decisivo la possibilità di vincere il suo primo scudetto.
Ostrava, terza città della Repubblica Ceca e capoluogo della Moravia-Slesia, ha però una storia e una fama di tutto rispetto. Trovandosi al centro di un’area ricca di miniere di carbone, dall’inizio della Rivoluzione Industriale è cresciuta enormemente e ha sviluppato collegamenti con tutte le città più importanti dell’Europa continentale. Nel 1939 fu annessa alla Germania insieme a tutto il resto della Boemia-Moravia. Perciò, oltre a rimanere per sei anni sotto il tallone di ferro nazista, fu ripetutamente bombardata dagli Alleati per fermarne l’attività mineraria.
Essendo una città di confine, la sua popolazione prima della guerra era composta da cechi, slovacchi, polacchi, tedeschi ed ebrei. Dopo la guerra gli ebrei erano scomparsi e i tedeschi vennero espulsi. Restarono solo cechi, slovacchi e polacchi. Con le miniere di nuovo in piena attività, Ostrava diventò il “cuore d’acciaio della repubblica”. Un soprannome che si è portata dietro fino alla caduta del regime comunista nel 1989, in seguito alla “rivoluzione di velluto” guidata da Vaclav Havel.
La chiusura delle industrie pesanti
Come si può facilmente immaginare, vista la chiusura delle industrie pesanti, oggi Ostrava è una città in decadenza, con un tasso di disoccupazione elevato e un livello di inquinamento preoccupante dovuto agli effetti di decenni di attività delle industrie stesse, senza praticamente nessun controllo.
A pensarci bene, una realtà del genere sembra l’ambientazione ideale per un giallo, meglio ancora se dalle tinte fosche. Ma finora non ci aveva ancora pensato nessuno, o quanto meno nessuno che sia mai arrivato in Italia. Quest’anno però, l’intraprendente casa editrice Le Assassine, specializzata nella scoperta di scrittrici originali o ingiustamente dimenticate (leggi anche qui), ci ha proposto il romanzo La casa al civico 6 dell’ex restauratrice Nela Rywicová, un’autrice delle nuove leve – è nata nel 1979 – che ha esordito proprio con quest’opera nel 2013.
Gli viene affidato il caso de La casa al civico 6
Adam Vejnar è un giovane poliziotto della sezione investigativa, che vive alla giornata senza né particolari sogni né particolari prospettive per il futuro. Una sera, mentre sta per tornare a casa, prende per caso una telefonata destinata a un suo collega che ha già smontato dal servizio. L’anziana signora Prchalová chiama per lamentarsi del disinteresse della polizia per il caso di suo figlio. Si tratta dello studente universitario Martin Prchal, scomparso esattamente un anno prima.
Anche se ha i fatti suoi a cui pensare, Vejnar il giorno dopo riferisce di questa telefonata al suo superiore che lo incarica di svolgere un supplemento di indagine sul caso. In un anno Prchal non è ancora ricomparso, quindi potrebbe essere sensato sospettare si tratti di un omicidio anziché di una indefinita sparizione.
Prchal, il ragazzo scomparso
Da una prima conversazione con la madre, Vejnar apprende che Prchal era un ragazzo riservato e idealista e che viveva in un vecchio condominio proprio a ridosso della miniera chiusa da tempo, in via U Trati (che significa “vicino alla ferrovia”). Gli abitanti del condominio con cui riesce a parlare gli riferiscono che Prchal si era autoassegnato la missione di salvare quell’edificio dalla demolizione. Infatti, come Vejnar scoprirà più tardi, il condominio al civico 6 di via U Trati è probabilmente l’ultimo esemplare rimasto in piedi tra quelli progettati dall’architetto Slezák. L’ultimo nello “stile progressista di Bruxelles”, così definito perché presentato per la prima volta all’Expo di Bruxelles nel 1958.
L’area in cui sorge l’edificio era stata assegnata a un’impresa di costruzioni olandese che vi avrebbe edificato un centro commerciale, mentre gli abitanti sarebbero stati trasferiti in case popolari della periferia.
Prchal aveva ottenuto, dopo molte insistenze, la possibilità per ogni inquilino di riscattare a un prezzo molto basso il proprio appartamento. Dopodiché sarebbe stato il Comune di Ostrava a provvedere al restauro dell’immobile, classificato come bene culturale. Ma poiché gli altri condomini non capivano niente di quello che lui stava facendo e non avevano la minima intenzione di sborsare un centesimo, alla lunga, il suo impegno per salvare il palazzo dalla demolizione glieli aveva messi tutti contro.
Visto che la sua ragazza lo ha sbattuto fuori di casa, costringendolo a dormire in ufficio, Vejnar decide di andare a vivere nell’immobile. Più precisamente si stabilisce nell’appartamento che in precedenza aveva occupato Prchal. Secondo il poliziotto, infatti, i condomini sanno più di quello che vogliono dare ad intendere. Potrebbero anche essere direttamente coinvolti nella scomparsa del ragazzo che, a questo punto, non può che essere morto.
Sarà proprio immergendosi completamente nella vita del palazzo che Vejnar riuscirà a venire a capo del mistero.
Il quartiere, il palazzo e i condomini
La casa al civico 6 è un romanzo angosciante e spesso claustrofobico, in cui la cornice ha la stessa funzione di un personaggio importante. Il quartiere industriale e la sua tormentata storia, il palazzo e il suo malinconico destino, le figure dei diversi condomini, ovvero vedove di minatori e uomini che vivono di espedienti, tutta gente per la quale il passato è più importante del presente e il futuro è solo qualcosa cui è meglio non pensare. Tutto sembra aver contribuito in qualche modo a spingere l’inconsapevole studente idealista verso il suo destino.
Vejnar ne è cosciente e ciò lo spinge a proseguire l’indagine anche quando sembra non approdare a nulla e i superiori gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il ragazzo scomparso rappresenta una sorta di coscienza rimossa dell’intera piccola comunità in cui è vissuto. E il poliziotto, mentre sente la costante esigenza di dargli giustizia, riconosce in lui ciò che avrebbe potuto essere se il tran-tran quotidiano e la graduale assuefazione ai più squallidi crimini non lo avessero ridotto a un insignificante burocrate della giustizia, più preoccupato di lasciare le carte in regola che di smascherare i colpevoli dei delitti. Più di questo non posso dire.