Quando si comincia a leggere un romanzo, quali che siano le aspettative su di esso, non si sa mai cosa vi si troverà. Alcuni romanzi sono prevedibili e questo per qualche lettore è un difetto, mentre per altri – che nei libri cercano soprattutto rassicurazioni – è un pregio. Altri invece sono sorprendenti, ma non è detto che questa qualità sia per forza un pregio: un romanzo può sorprendere in senso positivo oppure in senso negativo. Poi ci sono, più rari, i romanzi come La fine che farai di Max Fiorelli (Piemme), che sorprendono in ambo i sensi.
Iniziando a leggere il libro, la prima reazione non può essere che quella espressa da una serie di “Ohmioddioh!”.
Ohmioddioh, un detective ricalcato sputato sui personaggi dei film con Clint Eastwood, che si chiama pure Harry come l’ispettore Callaghan!
Ohmioddioh, entro le prime cinquanta pagine si è già scolato due enoteche e ha già scopato il doppio di Cassano!
Ohmiodioh, ma guarda caso indaga proprio su uno stupratore seriale protetto dai Potery Forty!
In sintesi: alla fiera del luogo comune, in libreria, un poliziesco il lettore comprò…
Però, a forza di andare avanti, anche l’arcigno recensore che sta lì armato di pennarello rosso per sottolineare con voluttuosa ferocia tutto ciò che non va, si rende conto che non sta portando avanti la lettura solo per senso del dovere: anzi, sta leggendo un capitolo dietro l’altro proprio perché gli interessa sapere come va a finire. Anche se in maniera discontinua, si tratta comunque di un romanzo avvincente. La parte relativa alle indagini, se non si perde di vista il filo conduttore in mezzo alle divagazioni sessual-sentimentali, è fatta decisamente bene.
Max Fiorelli versus Joël Dicker
Diciamo che Max Fiorelli si può considerare alla stregua di un Joël Dicker. La trama c’è, anche se mette un po’ troppa carne al fuoco e alla fine si trascina verso una conclusione fin troppo prevedibile (non però in tutti i dettagli). I suoi personaggi sono tratteggiati in modo un po’ meno stereotipato di quelli di Dicker, non ancora compiutamente tridimensionali, ma nemmeno del tutto bidimensionali come quelli dello svizzero (leggi qui su di lui).
Anche i dialoghi suonano meno scopiazzati da un certo cinema di facile successo. Per i lettori appassionati di Dicker, Fiorelli è consigliatissimo, rappresenta un passo avanti rispetto all’originale.
Per tutti gli altri, dipende da cosa ci si aspetta da un romanzo. Quanto a leggerlo, si finisce senza sforzo, non è noioso ed è opportunamente suddiviso in capitoli abbastanza brevi da non stancare. Per fornire qualche elemento utile a decidere, presentiamo la prima parte della trama.
La fine che farai
Harry Castellani, ex poliziotto della Florida divenuto scrittore di successo, si trova a Roma per presentare l’edizione italiana del suo libro. In un ricevimento all’ambasciata americana, conosce il suo editore italiano, Gandolfini, e la giovane figlia di questo, Carlotta. Conosce anche una ragazza scozzese che lavora per un’organizzazione internazionale, Odette, e alla fine del ricevimento se la porta in hotel. In strada, i due vedono Carlotta Gandolfini che discute con un automobilista che l’ha tamponata ma, tra l’effetto dei cocktail scolati e quello degli ormoni schizzati a mille, hanno poca voglia di occuparsene e la piantano lì senza intervenire.
Il giorno dopo, arriva la notizia che Carlotta è stata rapita, stuprata e uccisa.
Harry Castellani, tormentato dal senso di colpa, prima va a testimoniare di aver visto la ragazza in strada la notte in cui è scomparsa e poi comincia una sua personale indagine su cosa possa esserle accaduto. All’inizio, senza molta convinzione, ma ottenendo ugualmente qualche risultato. Poi succede che anche Odette viene rapita e stuprata alla stessa maniera di Carlotta, anche se non viene uccisa. A quel punto Harry decide che “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”.
Così si è detto abbastanza e tocca al lettore stabilire se vuole sapere o no come prosegue la vicenda.
La via per la sceneggiatura
Da un po’ di tempo, recensendo thriller, si ha sempre più la sensazione che gli autori pubblichino libri vedendoli non come obiettivi finali del loro lavoro, ma come semplici tappe. Che tutto sommato il libro, anche di successo, serva più che altro a farsi un nome e come trampolino di lancio verso possibilità molto più remunerative. Già in un’altra recensione, mesi fa, abbiamo notato come gli stilemi e i cliché del cinema, e più ancora delle serie tv, stiano ormai influenzando pesantemente la qualità della narrativa degli autori giovani, quelli nati all’incirca dal 1980 in poi. Ciò vale soprattutto per la narrativa di genere, che a quanto pare è quella che appare più adatta a compiere un simile salto.
Nel caso di La fine che farai (ma anche di molti altri) questa influenza è palese. Azione e dialoghi appaiono pensati più in vista di una eventuale resa scenica su schermo che per una normale lettura. Scelta rispettabilissima, per carità. Ma, se mi è concesso esprimere un giudizio puramente estetico, non tanto soddisfacente per chi compra e legge un libro sentendosi pienamente un lettore, ossia il destinatario di una storia scritta apposta per lui. Rimane sempre un vago disagio al pensiero di essere considerato più che altro un intermediario, una sorta di passaggio obbligato verso un altro genere di pubblico.