Ci sono personaggi che ti entrano dentro e non ti lasciano più, nemmeno dopo decenni.
Negli anni ’80, ci si poteva imbattere in Sylvia Plath soprattutto in biblioteca, perché le sue poesie erano da tempo fuori catalogo. C’era però in giro l’edizione Oscar de La campana di vetro, che aveva in appendice sei poesie la cui lettura era un’esperienza folgorante e indimenticabile.
Non so quale potesse essere la situazione in Svezia in quello stesso periodo, quando nacque Erin Cullhed (1983). Né quando avrà scoperto la Plath, ma si è legata a lei al punto da dedicarle un’opera piuttosto temeraria. Euforia è un romanzo scritto con lo spirito di un romanzo storico, ossia ricostruendo con precisione la cornice dell’epoca, ma lasciando all’invenzione narrativa vicende e personaggi.
Ne esce fuori una Sylvia Plath al tempo stesso simile e differente rispetto a quella raccontata dai profili biografici.
La Plath è un personaggio parecchio complesso, anche per gli elevati standard della categoria dei poeti. Ma i biografi hanno potuto lavorare sul cospicuo materiale che ha lasciato come una traccia continua dietro di sé. Lettere e diari, ma nel tempo è uscito fuori anche dell’altro.
Le lettere inedite scoperte nel 2017
Nel 2017, una ricercatrice ha scoperto delle lettere inedite alla sua amica e psichiatra Ruth Barnhouse, in cui la Plath si lamentava di aver subito maltrattamenti e percosse dal marito, il poeta Ted Hughes, poco tempo prima di andare soggetta a un aborto spontaneo, nel 1961. È un’eredità brutta, che macchia la reputazione di Hughes molto più dell’adulterio che per molto tempo è stato considerato la causa scatenante del suicidio della Plath.
Anche volendo riconoscere a Ted ogni attenuante possibile, come le origini popolari e la crescita in un ambiente in cui le controversie si risolvevano più a cazzotti che in tribunale. Aggiungiamo lo stato di esasperazione cui poteva spingerlo la moglie, che nei momenti di rabbia e sconforto poteva arrivare a distruggere non solo le opere a cui stava lavorando lei, ma anche quelle di lui. Però l’immagine di un omaccione alto 1,86 e molto robusto che leva le sue grosse mani a colpire una ragazza pure alta (1,75) ma sottile e fragile e per di più incinta, non può che farci orrore. Tanto più se pensiamo che la ragazza è la moglie dalla quale ha già avuto una figlia e dalla quale più tardi avrà un altro figlio.
Nel fatto che comunque lei gli rimanesse attaccata morbosamente, al punto da non reggere la prospettiva dell’abbandono, si ritrova forse un’eco di una delle più celebri poesie della Plath, Daddy che tra l’altro recita:
“Ogni donna adora un fascista
la faccia sotto lo stivale
il cuore di un bruto a te uguale”.
Sebbene Sylvia, presentando la poesia per una lettura radiofonica alla BBC, la definì un’opera non autobiografica che parla di una ragazza che cerca di emanciparsi dalla figura del padre idolatrato e morto prematuramente. Il Daddy, il papà evocato dai versi è visto prima come un dio infallibile e poi come un odioso nazista. Sebbene il padre della poetessa, lo studioso di origine tedesca Otto Plath, non fosse affatto un nazista, bensì un pacifista. Inoltre quando l’opera venne scritta, nell’ottobre del 1962, la crisi del matrimonio con Ted era al culmine e questa coincidenza fa sospettare che dietro la maschera di Daddy ci fosse nascosto il marito.
Il perché della morte
A questo punto, però, diventa obbligatorio sgombrare il campo da una mitologia consolidata nel tempo. Ted Hughes è stato accusato di aver svolto un ruolo importante nella genesi del suicidio della moglie, solo da una parte estremista e agguerrita della critica femminista. Sylvia Plath aveva infatti tentato il suicidio altre volte (un paio sono descritte molto realisticamente in La campana di vetro) anche prima di conoscerlo. Ed era affetta da una forma di depressione bipolare, una situazione che purtroppo conduce spesso a gesti autolesionistici.
Nemmeno il fatto che la seconda moglie di Hughes, Assia Wevill – proprio la donna per cui aveva lasciato Sylvia – si sia a sua volta uccisa nella stessa maniera della prima (con barbiturici e gas), nel 1969, portandosi dietro anche la loro figlia di quattro anni, sembra molto significativo. La Wevill infatti era una persona spericolata, dal vissuto difficile. Ebrea tedesca, sfuggita alla Shoah, abituale frequentatrice di artisti e intellettuali senza esserlo, “mangiatrice di uomini” generalmente più giovani di lei, ossessionata dalla propria avvenenza fisica e, dopo il suicidio della Plath, oppressa dal perenne confronto con quest’ultima.
A deporre a favore del fatto che Ted Hughes non sia stato un Barbablù ci sarebbe anche il dettaglio per cui la terza e ultima moglie, Carol Orchard, gli restò accanto senza problemi per ventotto anni. Fino all’improvvisa scomparsa di lui per un attacco di cuore, mentre si curava per un cancro al colon.
D’altronde non si può escludere che, nonostante il prestigioso ruolo di Poet Laureate del Regno Unito rivestito a partire dal 1984, Hughes non sia mai stato insignito del premio Nobel proprio per certi dettagli imbarazzanti del suo passato.
L’abbandono di Ted Hughes
La mitologia da sfatare è quella per cui la Plath si sarebbe uccisa proprio per l’abbandono di Hughes. Ci sono molti elementi anche contro questa possibilità. La madre della poetessa scrisse che, secondo lei, la figlia aveva semplicemente ceduto alla tristezza di un giorno più freddo e cupo degli altri. Era il febbraio del 1963 e l’Inghilterra era attraversata da un’ondata di maltempo e gelo. Altri biografi hanno sottolineato come da poco tempo avesse cominciato a prendere degli psicofarmaci che avrebbero potuto farla stare meglio, non tanto da abbandonare le idee suicide, ma abbastanza da trovare la forza per attuarle.
Tuttavia, le prove più importanti stanno nella meccanica stessa del suicidio. Sylvia prese una dose di barbiturici sufficiente a dormire ma non a morire. Infilò la testa nel forno con il gas aperto dopo aver sigillato la cucina ma sapendo che di lì a poco sarebbe arrivata l’infermiera che Horder, il medico di famiglia, le aveva assegnato per seguirla intanto che le trovava un posto letto in ospedale, dato che era molto preoccupato per le sue condizioni mentali. Inoltre lei lasciò bene in vista un biglietto con i recapiti del medico.
La verità non la sapremo mai. Anche se il critico Al Alvarez, suo amico, sopravvissuto a un tentato suicidio e autore del famoso studio Il dio selvaggio dedicato al rapporto tra suicidio e arte, ha osservato che tutto questo sembra più vicino a “una disperata richiesta di aiuto” che a una precisa volontà di farla finita. Purtroppo l’infermiera arrivò in ritardo e per i soccorritori non ci fu più nulla da fare.
Euforia si ferma al 1962
Il romanzo della Cullhed si ferma prima di questa conclusione, nel dicembre del 1962, quando Sylvia e i bambini – ma non Ted, rimasto con la Wevill – tornano a vivere a Londra dalla casa di campagna del Devon. La Sylvia che narra in prima persona Euforia è una giovane donna che vorrebbe potersi dedicare alla creazione artistica. Ma non lo fa quasi mai perché si sente svuotata dalle responsabilità che le sono piombate addosso quando ha deciso prima di vivere autonomamente e poi di formarsi una famiglia.
La primogenita Frieda e poi il secondogenito Nicholas sono onnipresenti e oppressivi lungo l’intera narrazione. Sembra che la Plath non abbia tempo per niente altro a parte occuparsi dei suoi bambini piccoli, nati a un anno e mezzo di distanza l’una dall’altro. La maternità vissuta con un senso di amore-odio, non verso i figli – amati comunque – ma verso sé stessa per averla desiderata e verso il marito che l’ha assecondata.
Il rapporto con Ted Hughes, Poeta Laureato
Il rapporto con Ted è ugualmente ambivalente. Desiderio delle sue attenzioni e desiderio fisico ai massimi livelli quando lui è presente (perfino a costo di scatenarne le reazioni, che sono pur sempre un modo di essere toccata). Rabbia e rancore ogni volta che si allontana. Sappiamo che Sylvia, considerata e trattata come un piccolo genio fin dall’infanzia, non si raccapezzava del perché il suo successo come autrice tardasse ad arrivare. E non nascondeva la sua invidia per quello che invece il marito sembrava incontrare senza problemi e quasi senza sforzo. Anche di questo troviamo ampia eco nel romanzo.
Pubblicare La campana di vetro
Un ulteriore rapporto ambivalente è quello con il romanzo che sta per essere pubblicato. La campana di vetro che uscì nel gennaio del 1963, un mese prima del suicidio. Da un lato, Sylvia Plath contava molto su di esso per affermarsi nel mondo letterario. Da un altro temeva le reazioni che avrebbe scatenato tra le persone che ne avevano ispirato i personaggi, a partire dalla madre.
La campana di vetro è infatti il romanzo di una giovinezza WASP apparentemente dorata, ma di fatto resa insopportabile da un formalismo asfissiante. Una giovinezza così infelice che non c’è nulla di strano se la protagonista Esther tenta due volte il suicidio e finisce per perdere la verginità con uno sconosciuto dai modi rozzi anziché con il fidanzato bello, atletico e perfettino che le è stato pressoché imposto dalla famiglia e dalla società di cui fa parte. Insomma nel romanzo della Cullhed, l’ansia della Plath per il modo in cui sarebbe stato accolto La campana di vetro nella natia America è un tema che ricorre spessissimo.
Dunque, quella che emerge da questo Euforia è una Sylvia Plath romanzata, molto ma molto credibile. La preparazione dell’opera ha certamente richiesto un lungo studio della sua figura. I richiami alle circostanze in cui sono state scritte alcune celebri poesie – ad esempio Cut – sono evidenti a chiunque le conosca. Così come non mancano i rimandi a dettagli biografici della poetessa, da lei stessa narrati nelle lettere, nei diari e anche negli altri scritti confluiti nella miscellanea pubblicata in italiano con il titolo Johnny Panic e la bibbia dei sogni.