Il processo alle streghe di Salem
La storia del processo alle streghe di Salem, che si è svolto in Massachusetts nel 1692, deve essere nota perlomeno agli amanti del teatro e del cinema, vista la versione che ne fece Arthur Miller nel 1953 (Il crogiuolo) a cui seguì anche una trasposizione cinematografica nel 1996 (La seduzione del male). Di film veramente ce n’è stato anche un altro, Le vergini di Salem, realizzato in Francia nel 1957 e sceneggiato addirittura da Sartre, ma per svariate ragioni è rimasto poco noto.
Il tema del fanatismo e del delirio collettivo non smette di essere attuale e anche oggi potremmo riconoscere in una figura assurta dal nulla a improvvisa notorietà qualche tratto dell’istrionica Abigail Williams, o dell’ottuso Samuel Parris, o dell’avido e perfido giudice John Hathorne.
Per quest’ultimo il processo rappresentò soprattutto un’occasione di facile arricchimento. Poté infatti acquistare in aste senza concorrenti le proprietà sequestrate ai condannati. Paradossalmente, proprio quello che fu istituzionalmente incaricato di combattere il demonio si rivelò il personaggio più satanico della storia. Fu però destinato a scontare la sua malvagità con una maledizione che perseguitò la sua famiglia per oltre un secolo.
La lettera scarlatta
Una maledizione che durò fino a quando il pronipote Nathaniel cambiò il proprio cognome in Hawthorne per rinnegarlo e fece pubblicamente ammenda dei crimini dell’antenato, raccontando le tenebre del New England con un romanzo destinato a diventare un classico, La lettera scarlatta.
Sembra ormai accertato che la fantasia morbosa delle ragazzine che si trasformarono in implacabili accusatrici di innocenti fu eccitata, almeno in parte, dai racconti ascoltati dalla schiava di Samuel Parris: una donna cresciuta alle Barbados, di nome Tituba. Questa, inizialmente chiamata in causa come strega, durante il processo riuscì a scagionarsi da ogni responsabilità divenendo la più importante testimone dell’accusa.
Anche suo “marito” John Indian, un altro schiavo di Samuel Parris, ebbe un significativo ruolo come testimone d’accusa.
Tituba
Tituba, figura fondamentale nei processi, fu anche la più sfuggente. Questo per la negligenza della storiografia che, per secoli, ha ritenuto non necessario doversi occupare del destino di una “negra” insignificante e analfabeta.
Non si sa neppure con esattezza a quale etnia appartenesse, se fosse di origine africana, sudamericana, o nativa americana. Molto probabilmente arrivò in Massachusetts con un carico di schiavi proveniente dalle Barbados, dove si praticavano diverse forme di magia.
Durante l’inchiesta, Tituba trascorse un anno in prigione a Boston. A quel tempo, il carcere era considerato una sorta di albergo e ai “residenti” veniva imposto di pagare le spese del soggiorno. Tituba era nullatenente e il padrone Parris rifiutò di saldare il conto. Quindi, anziché tornare a casa, a inchiesta finita, fu “confiscata” e poi venduta a uno sconosciuto per una somma pari a quella che doveva all’amministrazione carceraria.
Fece giusto in tempo a rilasciare un’intervista a Robert Calef, un colto mercante di Boston che nel 1700 pubblicò il coraggioso libro More Wonders of the Invisible World (altre meraviglie del mondo invisibile) per denunciare gli abusi e gli orrori consumati durante il processo alle streghe di Salem, aprendo la strada alla sua revisione.
In quest’occasione, Tituba confessò di essere stata costretta a confessare cose mai fatte e ad inventarsi accuse di ogni sorta dal padrone Samuel Parris, sotto la minaccia della morte.
Anne Petry
Dal momento in cui fu venduta, si perdono completamente le sue tracce e per oltre due secoli e mezzo, nessuno si è più interessato a lei. Fino a quando la scrittrice Ann Petry (la prima autrice afroamericana a superare il traguardo del milione di copie vendute con un solo libro, La strada), nel 1964, la scelse come protagonista di un romanzo per ragazzi intitolato Tituba of Salem Village, incentrato sui fatti di Salem. Da quel momento, la cultura afroamericana e quella femminista cominciarono a interessarsi a lei e a ricercare le sue tracce.
La Tituba di Maryse Condé,
la scrittrice che nel 2018 ha ricevuto il Nobel alternativo
A dedicarsi con particolare impegno a Tituba è stata Maryse Condé, una delle autrici a cui l’editoria italiana non ha mai dedicato abbastanza spazio (come anche alla Petry, del resto).
Nata in Guadalupa nel 1937, la Condé scrive in lingua francese e gode di una notevole stima da parte della critica letteraria di tutto il mondo. Basti pensare che nel 2018, quando l’Accademia di Stoccolma decise di non assegnare il premio Nobel per la Letteratura in seguito allo scandalo in cui furono coinvolti alcuni membri per reati finanziari e molestie sessuali, un gruppo di accademici dissenzienti si riunì sotto la denominazione di “Nuova Accademia” e le conferì il simbolico “Premio Nobel alternativo”.
Maryse Condé, come ha dichiarato lei stessa, “ha vissuto un anno intero in compagnia di Tituba”, svolgendo ogni tipo di ricerca, ma ha immediatamente compreso che non sarebbe riuscita a trovare abbastanza notizie da giustificare una vera biografia. Ha deciso dunque di dedicarle un romanzo storico, avendo cura di prepararlo come se si trattasse di un saggio.
Il team di storici francesi guidati da Alain Corbin
A leggere il risultato, Io, Tituba, strega nera di Salem, viene in mente la straordinaria avventura intellettuale realizzata dal team di storici francesi guidati da Alain Corbin, che nel 1998 portò alla pubblicazione di Il mondo ritrovato di Louis-François Pinagot. Sulle tracce di uno sconosciuto.
Per scrivere questo libro, il cui obiettivo era la narrazione della vita di un francese medio del XIX secolo, Corbin e i suoi collaboratori partirono dalle statistiche sui mestieri più diffusi a quel tempo e ne scelsero uno caratteristico: lo zoccolaio. Presero poi un nome a caso, quello di uno zoccolaio vissuto in Normandia nell’Ottocento, e ricostruirono passo dopo passo la sua vita, seguendo i documenti (contratti, battesimi, matrimoni, testamenti) in cui compariva il suo nome e integrandoli con i dati ricavabili dall’analisi statistica delle persone nella sua condizione. Il risultato è un testo impegnativo nel suo continuo proporre ipotesi e probabilità, ma incredibilmente affascinante.
La schiava orfana che scopre la magia
Maryse Condé, per preparare la sua storia di Tituba, ha fatto lo stesso, anche se la scelta della forma-romanzo le ha permesso di liberare l’invenzione dalla gabbia del rigore scientifico e dei dubbi che lascia sempre aperti. Tituba ci narra la sua vita in prima persona, dalle sue origini (la Condé sceglie l’ipotesi che fosse africana) alla sua infanzia da schiava e orfana, alla scoperta della magia come chiave per comprendere un mondo che non le offriva quasi nessuna gioia. Ciononostante Tituba è determinata a prendersi tutto ciò che la vita le offrirà.
Sempre in contatto con i suoi spiriti-guida – la madre, il padre adottivo, la donna che l’aveva tirata su quando era rimasta sola – Tituba si sente una donna di medicina destinata a praticare la magia per il bene. Ma viene percepita dagli altri come una pericolosa strega. Passione e sensualità la inducono a vivere accanto al fascinoso John Indian, che invece affronta la condizione di schiavo con uno spirito clownesco, ossia apparentemente frivolo ma sempre tristemente preoccupato di sopravvivere.
Il tronfio Samuel Parris, ignorante, rozzo, inetto
Insieme a John Indian, Tituba viene venduta al tronfio Samuel Parris che li porta con sé in New England. Parris vuole fare il pastore d’anime ma è solo un ignorante rozzo e presuntuoso che riesce a ottenere una parrocchia in un luogo dove non vuole andare nessuno. È il villaggio di Salem dove tutti diffidano di tutti.
Parris è talmente inetto che la famiglia sopravvive solo grazie al lavoro di John Indian, affittato di volta in volta come bracciante, operaio o facchino.
Tituba si lega con un sincero affetto alla moglie di Parris, l’esangue Elizabeth, e alla figlia, la timida Betsey, mentre diffida della nipote Abigail Williams, della quale intuisce l’animo da vipera. Malgrado le continue cure che prodiga a Elizabeth e a Betsey, entrambe si schiereranno contro di lei quando le ragazze di Salem, a partire la Abigail, cominceranno a inventarsi storie di visioni sataniche e di incontri con il diavolo, accusandola di evocarlo.
Amareggiata e furiosa, una volta arrestata e con la prospettiva del patibolo, Tituba seguirà i consigli di John Indian ed entrambi si metteranno ad accusare tutti i “bianchi” sospetti, in una sorta di vendetta verso la razza che li opprime, i cui membri finiscono con lo sbranarsi tra loro.
Incursioni nella storia
La trama compie anche qualche incursione tra elementi storici tramandati in modo idealizzato. Ad esempio, durante la sua detenzione a Boston, Tituba fa amicizia con la vera Hester Prynne incarcerata per adulterio, ma il destino della ragazza sarà molto più tragico di come racconta La lettera scarlatta.
Un altro fatto rimosso della storia americana è che, all’uscita dal carcere, il compratore di Tituba sarà un mercante ebreo in fuga dalle persecuzioni subite in Portogallo. L’uomo, vedovo e con diversi figli, diventerà il suo amante e sarà l’unico a riservarle un affetto e un rispetto incondizionati. Ma neanche Boston sarà esente dallo spirito dei pogrom. Così, dopo aver visto la sua vita distrutta, l’uomo deciderà di salvare Tituba restituendole la libertà e dandole la possibilità di tornare alle Barbados. Purtroppo, anche la terra natia, tanto idealizzata e rimpianta, si rivelerà la più matrigna e spietata di tutte.
Io, Tituba, strega nera di Salem
Io, Tituba, strega nera di Salem mette continuamente a confronto la magia della strega selvaggia con la “conoscenza” delle “persone civili”, che però si rivela essere solo superstizione, paranoia e repressione sessuale istituzionalizzata.
La “superiorità” dei bianchi è solo in parte quella tecnologica, perché è soprattutto una insaziabile sete di potere e di dominio che impedisce loro di godersi la vita. Le patetiche donne bianche sono formalmente libere ma ancora più schiave delle vere schiave. Queste ultime potrebbero provare a fuggire per andare alla ricerca della libertà, mentre le bianche si porterebbero comunque dietro le loro catene interiori. Anche se, alla fine, la stessa comunità degli schiavi non è migliore di quella dei bianchi. A prosperare infatti sono soprattutto quelli che collaborano con i padroni per opprimere i propri compagni di sventura, o che fingono di combatterli quando in realtà si sono divisi il territorio con loro.