“Storie, storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie”.
Bernard Malamud
Magari seguono quella della biografia romanzata, del pamphlet ecologico o giudiziario, dell’opera mondo in cui il plot scompare travolto da una imbarazzante mole di citazioni storiche, filmiche e letterarie come ci pare stia accadendo ad affermati autori contemporanei: a chi legge la libertà di identificarne i nomi.
Anche – o proprio – per questo – vale la pena invitare alla lettura o rilettura di un gioiello della narrativa moderna come Il commesso di Malamud.
Pubblicato nel 1957, disponibile in italiano nella pregevole edizione di Minimum Fax, con traduzione di Giancarlo Buzzi, è una splendida, struggente, a tratti finemente ironica storia (soprattutto d’amore, certo non solo) che riflette, senza enfasi né ostentazione, la Storia.
La bottega di Morris Bober
Siamo in un degradato quartiere ebraico di Brooklyn, affollato di barbieri, macellerie, enoteche, sartorie e popolato da operai, imbianchini, lattai, massaie e venditori ambulanti. Tra paisà, ladruncoli e perditempo c’è la bottega di Bober, negozio di gastronomia fatiscente, declassato a spaccio alimentare sull’orlo del fallimento, dove “le ore muoiono e marciscono”. Niente “banchi di vendita aerodinamici o luci fluorescenti”, solo “panna scremata, pane di segale, aceto di sidro” e la conta ossessiva dei miseri proventi su vecchi e rumorosi registratori di cassa. In mezzo a tutto questo si intrecciano destini e speranze di quattro indimenticabili personaggi, fra loro in qualche modo speculari anche anagraficamente.
Quattro indimenticabili personaggi
Morris Bober è il proprietario. Astioso con il mondo che lo circonda, frustrato, raggirato da affaristi privi di scrupoli – con un lutto mai elaborato per un figlio morto e nostalgie adolescenziali di quando, nel villaggio russo d’origine guardava il cielo e la neve di primavera cadere. Lunga è la sua lista di rese e compromessi.
Morris Bober non vuole compassione, ma è in grado di provarne perché la Torah impone di essere retti con gli altri e questo vale più del recarsi in Sinagoga e mangiare kosher. Cattivo amico della fortuna sin nel nome (Bober in yiddish significa “persona da poco”) è onesto e incapace di provare invidia salvo pentirsene, vista la tragicità di una vita “trascorsa spietatamente senza profitto”. Bober ha avuto ben poco da un’America “diventata troppo complicata e disumana, con troppe depressioni, troppe ansie, troppa concorrenza”.
Sua moglie Ida
Sua moglie Ida, capelli neri e “51 anni ingrigiti dalla prostrazione”, sopravvive stancamente fra stizze, rancori e rammarico per una parnusseh (prosperità) mai nemmeno intravista e ambizioni giovanili sfiorite. Ormai è animata solo dall’accanito desiderio di vendere l’esercizio e veder sistemata la figlia Helen con un connazionale meno pavido e più ricco del marito.
La figlia Helen
“Occhi di un azzurro tagliente su un volto sciupato”, Helen è graziosa sin quasi ad essere bella. Sensibile, insoddisfatta e colta, a 23 anni è afflitta dal precoce rimpianto per una giovinezza arenatasi bruscamente. Disillusa per le occasioni mai colte e lo squallore disadorno di una esistenza sciatta come la sua casa, ma tenacemente fiduciosa e resiliente, Helen esige – senza sconti su sogni e ideali – rispetto, opportunità e un futuro “nell’amore”, ove conservare, sublimandolo, il meglio di sé e dell’altro.
Il commesso Frank Alpine
L’altro ha i tratti asimmetrici e lo sguardo “malinconico, spaurito, tormentato, triste, affamato” di un forestiero di origini italiane. Frank Alpine è attratto dall’irresistibile impulso ad amarla e dal tormentato desiderio di redimere un passato di “passioni avvelenate dalla vergogna”, opportunità “meravigliose” sfiorate e poi perdute per “mosse stupide”.
Incapace a mettere radici se non come commesso nella “grotta tranquilla, immobile” della bottega ebrea dove, fra i sospetti e le diffidenze, soprattutto di Ida per un “gentile”, i clienti iniziano a tornare.
A suo modo ambizioso, curioso, inquieto, talentuoso e ambiguo, Frank Alpine che “ama le stelle e la luna dell’Ovest”, è capace a un tempo di meschinità e rigurgiti sinceri di lealtà, eccessi d’ira e delicate premure.
Nasconde con pari abilità doti e carenze, non si vergogna di rapinare chi lo ha accolto ma conosce le stigmate dolorose del rimorso. Frank Alpine è penosamente sospeso fra l’illusione che la pratica del crimine sia l’esito per essere “grandi nel male” e la proiezione di una gratificante, francescana espiazione.
Il commesso legge pagine faticose
I due si incontrano in una biblioteca e la letteratura è un topos trasversale del libro. Lui legge “le pagine faticose” con “nomi strani e frasi maledettamente complicate” dei capolavori russi e francesi, donatigli dalla ragazza. Prova “stanchezza e freddezza” per Madame Bovary, “interesse” verso Anna Karenina (preferita alla francese non esattamente per qualità intellettuali), “avversione e fascino” per Delitto e castigo dove “chiunque apre becco ha perversioni e debolezze da ammettere”.
Ed è capace, alla fine, di regalarle, fra imbarazzo e tenerezza, una preziosa edizione delle opere teatrali del Bardo… se non è riscatto questo.
Un autentico capolavoro
Sullo sfondo di una molteplicità di tipi umani definiti con maestria si delinea un universo ebraico urbano non ortodosso e solidale. Tutti sono in fondo accumunati dalla percezione dello scialo di anni sprecati e dal rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere. Con l’ansia di venir travolti nella impietosa lotta per la sopravvivenza, combattuta fra scacchi ed errori nella dolorosa consapevolezza di un fatale isolamento e, nondimeno, la strenua “fantasticheria”, soprattutto dei giovani, di essere destinati “a qualcosa di diverso e migliore”.
Ma a rendere unico il romanzo di Bernard Malamud è il miracolo di una prosa magistrale nella sua, solo apparentemente facile, naturalezza. Per questo e molto altro Il commesso è un autentico capolavoro, destinato a rimanere nel Novecento letterario.