Ilaria Tuti è una scrittrice friulana, nota la grande pubblico per la serie thriller con protagonista la commissaria Teresa Battaglia, diventata una fiction di successo con Elena Sofia Ricci. Però Ilaria Tuti ha anche una vena narrativa storica, nella quale mi sono imbattuta nella mia ormai nota ricerca di storie aventi come protagoniste donne che, per la prima volta, hanno ricoperto ruoli fino a quel momento di squisita pertinenza maschile.
Fiore di roccia
Nel libro Fiore di Roccia, Ilaria Tuti ci racconta la storia, dimenticata se mai conosciuta, delle portatrici carniche. Donne dei poverissimi villaggi ai piedi delle Alpi Carniche che, durante la Prima Guerra Mondiale, quotidianamente si presentavano ai comandi a valle con le loro gerle, affinché fossero riempite di cibo, vestiti, munizioni, per i soldati in trincea. Non c’era modo all’epoca di poter salire, se non a piedi. E loro, lasciando a valle neonati e vecchi bisognosi, si arrampicavano con ai piedi le SCARPETZ (oggi appunto conosciute come “Friulane”), le calzature tradizionali fatte di stoffa, per portare aiuto e conforto a mariti, figli, fratelli, o anche solo amici.
Fiore di Roccia è un libro emotivamente molto forte. L’autrice ci fa entrare nella durissima vita di quelle donne, dove una patata – una di numero – spesso era l’unico cibo della giornata e non era neanche sempre garantito.
Tale era il rispetto con cui, dopo un primo momento di perplessità, i soldati trattavano le portatrici, che iniziarono a chiamarle così dando loro l’onore militare: Le portatrici divenne il nome del loro battaglione, né più né meno come quelli maschili.
La protagonista di Fiore di Roccia è un’invenzione letteraria, ma simboleggia tutte quelle donne che hanno contribuito alla vittoria della guerra e che, colpevolmente, sono state messe da parte e dimenticate.
Come vento cucito alla terra
Rimanendo nello stesso periodo, ma cambiando nazione, nel suo penultimo libro (l’ultimo, Madre d’ossa, ha di nuovo come protagonista la commissaria), Ilaria Tuti ci racconta la vera storia delle lady doctors, donne chirurgo che aprirono il primo ospedale militare interamente gestito da donne, durante la Grande Guerra,
Bisogna ricordare che, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, alle donne era sì permesso studiare medicina, ma poi si ritrovavano a curare solo donne e bambini in ospedali di carità per la povera gente che non poteva permettersi un medico “vero”.
La Prima Guerra Mondiale sconvolse l’ordine costituito, in questo come in tutti gli altri settori. Gli uomini erano andati tutti entusiasticamente in guerra, le donne si trovarono sole a dover fronteggiare la vita quotidiana in tutte le sue forme.
Le dottoresse Flora Murray e Louisa Garrett, per tornare all’ambientazione della nostra storia, già in prima linea nel movimento delle suffragette, lasciarono la rigida e convenzionale Inghilterra e inaugurarono a Parigi il primo ospedale militare inglese sul fronte occidentale: il WHC, Women’s Hospital Corps. Lo fecero con il supporto della Croce Rossa di Parigi.
Realtà storica e finzione narrativa
Qui la realtà storica si mescola con la finzione narrativa: le due dottoresse vanno a cercare la dottoressa Cate Hill – un personaggio inventato, per metà italiana e per metà inglese che aveva studiato da chirurgo e operava come ginecologa nei bassifondi di Londra – per offrirle il lavoro che le cambierà la vita.
Cate è una madre single, è dubbiosa, non vuole lasciare la figlia Anna di cinque anni nelle mani dei pur affettuosi coniugi anziani con cui condivide la casa. Ma sa che inseguire il proprio sogno professionale servirà anche al futuro della bambina. Sa pure che quello che sta per fare con le sue colleghe, lo farà anche per sua figlia, sarà per un bene superiore, per una giusta causa, per rendere il mondo un posto migliore, un posto dove le donne saranno libere di scegliere, libere di decidere chi e cosa essere.
Le sei settimane nell’ospedale francese volano. Cate incontra altre donne che si ritrovano a fare lavori maschili e, sempre di più, vogliono affermare quello che fino allo scoppio della guerra era stato limitato a manifestazioni di piazza che erano state prese dall’autorità costituita neanche troppo sul serio. Il diritto di decidere per sé stesse, la necessità di far emergere le proprie competenze e la propria volontà. La definitiva certezza gliela dà una tassista super combattiva, che le dottoresse incontrano a Parigi, quando arrivano all’ospedale.
Non le sentite urlare? Sono grida di guerra. Una guerra di diritti. Qualcuna di noi dovrà pur combatterla. Se non noi – oggi, adesso -, dovranno farlo le nostre figlie domani. […] Siamo tante, sempre di più. Buona fortuna, ragazze.
Le lady doctors
Le lady doctors non hanno solo l’orrore della guerra da fronteggiare, le ferite inimmaginabili prima d’allora che devono tentare di sanare. La fatica maggiore viene loro proprio dai feriti, quegli uomini che si trovano a dover affidare la loro vita nelle mani di una donna, la considerano una cosa inconcepibile. Sono spaventati dalle mani delle lady doctors più che dalle baionette dei nemici. Solo l’ineluttabilità della situazione gliele fa accettare e, piano piano, ne riconoscono il valore.
L’ospedale riscuote innegabili successi, tanto da attirare l’attenzione del Governo inglese che richiama le dottoresse a Londra dove, nel 1915, fondano quello che è passato alla storia come l’ospedale di Endell Street. L’ospedale fa capo al Royal Army Medical Corps dell’esercito britannico ma, come spiega una delle dottoresse a un giornalista andato a intervistarle, “l’unico uomo presente, che comunque resta all’ingresso, è il soldato di guardia”.
La trama di Come vento cucito alla terra continua, quindi, con la sua commistione di realtà storica e finzione.
Nell’ospedale di Endell Street, Cate ritrova il capitano Alexander Seymour, che già aveva salvato in Francia liberandolo da un muro sotto il quale era rimasto incastrato. A Londra il capitano è in corsia con i suoi soldati, molti dei quali hanno bisogno di operazioni invalidanti per poter avere salva la vita. Il morale è a terra, alle tragiche ferite psicologiche si aggiungono quelle fisiche e il capitano non fa eccezione.
Il magico potere del ricamo
Qui di nuovo Ilaria Tuti ci conduce nella realtà storica: l’attore teatrale ed ex combattente Ernest Thesiger, amico personale della regina consorte, la moglie di Giorgio V (nonno di Elisabetta II, per gli amanti della dinastia Windsor), propose e portò avanti un’idea che fu più rivoluzionaria dell’invenzione del telefono: il ricamo. Proprio così, portò e insegnò il ricamo, arte femminile per antonomasia, tra le corsie dei reduci della Grande Guerra, allora massima espressione di virilità, per aiutarli a lenire le ferite dell’anima e trovare una alternativa professionale.
Ci fu grande ostracismo, chiaramente, da parte dalla società dell’epoca, e anche molti dei soldati opposero all’inizio un netto rifiuto. Ma ricamare è come dipingere, serve concentrazione e sensibilità, serve seguire delle regole perché – chi ha avuto la fortuna di conoscere qualcuno che ricama lo sa – il ricamo deve essere ordinato e piacevole anche sul retro. Il ricamo è un’attività terapeutica e meditativa. Simbolicamente, rappresenta una sutura dell’anima.
Nel romanzo di Ilaria Tuti, sarà la figlia della regina a far superare l’impasse dell’ostracismo sociale. Ma anche questo non deve essere molto lontano da quanto avvenuto in realtà perché, il 6 luglio 1919, venne esposta per la prima volta nella Saint Paul Cathedral, a Londra, una pala d’altare ricamata da 150 soldati provenienti da vari ospedali inglesi. Fu commissionata dalla regina Mary ed è tuttora esposta.
Da grande appassionata di storia, devo dire che entrambi i libri mi sono piaciuti tantissimo, mi hanno dato modo di scoprire fatti e situazioni della Grande Guerra di cui non avevo idea. La scrittura di Ilaria Tuti è emozionante e coinvolgente, lo studio e l’attenzione al dettaglio descrittivo fanno sì che il lettore sia immerso nell’epoca, senza mai cedere alla noia didascalica.
Ricette letterarie
Entrambi i libri sono ambientati durante la Prima Guerra Mondiale, per di più avendo come protagonisti principali i soldati di trincea che, è noto, non mangiassero manicaretti, poverini. Devo ammettere che stavolta mi sono trovata un po’ in difficoltà nel cercare una ricetta che potesse essere collegata ai libri di cui parlo. Mi è venuto però in mente il titolo di un altro libro, nonché del suo adattamento cinematografico, che parla di torta (salata) di buccia di patata.
Ho quindi pensato che durante la guerra si trovasse il modo di rendere commestibili più cose possibili, senza considerare che, ai giorni nostri, alcuni locali particolarmente trendy se le fanno pagare, e pure care, le bucce di patata croccanti con l’aperitivo!
Torta di buccia di patate
750 gr di patate biologiche a pasta gialla
400 gr di latte
100 gr di burro
160 gr di parmigiano grattugiato (questo in guerra non c’era!)
Sale
Olio extravergine di oliva
Preriscaldate il forno a 250°.
Mentre si scalda, lavate e sbucciate le patate, cercando di mantenere le bucce della stessa forma.
Mettete a bollire le patate in acqua bollente salata per circa 15 minuti, poi scolatele e, ancora calde, schiacciatele, mescolandole con il burro. Aggiungete il latte poco alla volta (potrebbe non servire tutto), fino a che non avrete un purè morbido e spumoso. A questo punto, aggiungete il parmigiano grattugiato e aggiustate eventualmente di sale. Tenete da parte.
Nel frattempo, il forno sarà giunto a temperatura. Foderate con carta forno una teglia da sformato e adagiatevi le bucce di patata, separandole e condendole con un filo di olio e sale. Fate cuocere per una ventina di minuti, finché diventano croccanti.
Abbassate il forno a 180°, versare il purè sulle bucce di patata e cuocete per circa mezz’ora.
Fate intiepidire la torta, poi rovesciatela sul piatto da portata e servitela subito con una bella insalata croccante.