Anche se Shizuko Natsuki ha sempre dichiarato di non riconoscersi in questa definizione (per la differenza tra le ambientazioni e le tematiche), se dovessimo giudicarla solo sulla base di Omicidio al Monte Fuji dovremmo ammettere che, in effetti, il soprannome di Agatha Christie giapponese ha un certo fondamento. Ma, obiettivamente, non si può ridurre l’opera omnia di un’autrice con un centinaio di romanzi nel proprio curriculum al solo libro di maggior successo.
Prima di questo romanzo, da poco proposto per la prima volta in Italia da Mondadori, la casa editrice aveva già pubblicato due titoli della Natsuki: Tempesta d’autunno, uscito nel Giallo nel maggio 1988 e L’abbandono, sempre nel Giallo ma nel 1997.
Le logiche con cui al Giallo sceglievano i testi da tradurre rappresenteranno sempre un mistero, anche questo degno della Christie, per i comuni mortali. L’abbandono in realtà risale al 1970 e sono stati quindi necessari quasi tre decenni perché arrivasse da noi. Invece, Tempesta d’autunno è uscito nel 1987 ed è stato tradotto quasi immediatamente.
Omicidio al Monte Fuji
Omicidio al Monte Fuji batte ogni record, perché l’edizione originale risale al 1982 e la traduzione è del 2023: oltre quarant’anni di differenza. È davvero inspiegabile, soprattutto se si pensa che, oltre a essere un bestseller, ha ispirato un film e ben cinque fiction tv. Ma non è nulla rispetto a quanto hanno combinato, per l’edizione americana (Murder at Mt. Fuji, 1987), quelli della Ballantine Books. Sono stati capaci di trasformare un importante personaggio da giapponese ad americano.
In Italia, abbiamo dovuto aspettare parecchio per leggere Omicidio al Monte Fuji ma almeno sembrerebbe che possiamo leggerlo in un’edizione non alterata. Nel frattempo, l’autrice è morta, nel 2016: era nata nel 1938.
E chissà quanto aspetteremo per poter leggere il romanzo che nel 1989, in traduzione francese (La promesse de l’ombre), vinse il Prix du roman d’aventures.
Omicidio al Monte Fuji parte subito come un mystery in piena regola e così continua senza deflettere un attimo: del resto, lo stesso titolo originale (che si traduce alla lettera La tragedia di W) è un palese omaggio alla serie di Ellery Queen con protagonista Drury Lane.
Capodanno nella villa di famiglia
Vediamo cosa accade: subito dopo Capodanno, la giovane laureata Ichijo Harumi, che sta aiutando la studentessa Watsuji Mako a redigere la tesi di laurea, viene invitata da questa a trascorrere qualche giorno nella villa di famiglia, in modo da completare il lavoro. Quella di Mako è una famiglia allargata molto facoltosa in cui, almeno apparentemente, tutti sembrano andare d’accordo.
Il prozio Yohe è un industriale farmaceutico di grande successo, felicemente sposato con la remissiva Mine. Ha un solo fratello, il ganimede Shigeru, mentre un altro fratello e una sorella sono morti. Il primo ha lasciato il giovane Takuo che collabora con lo zio, invece la sorella ha lasciato Yoshie, la madre di Mako che, rimasta vedova del padre di Mako, si è risposata con il biologo Michihiko. Alla compagnia si è unito anche il giovane Mazaki Shoei, che è il medico personale di Yohe.
Mentre si fa sera, fuori cade la neve…
Mentre si fa sera, fuori cade la neve a creare un paesaggio fiabesco, i Watsuji e gli invitati cenano allegramente. Ci si prepara ad una serata di giochi di società, quando un grido echeggia nei corridoi della dimora signorile. Mako compare sporca di sangue, ferita a un polso e in stato confusionale, dice qualcosa relativamente a Yohe che gli altri non riescono a capire. Quando finalmente si decidono ad andare nella stanza del patriarca, lo trovano morto, ucciso da una coltellata al petto.
Mako racconta di aver accoltellato il prozio mentre questo cercava di abusare di lei e la cosa che più stupisce Harumi – l’insegnante di Mako che è l’unica vera estranea del gruppo – è la prontezza con cui tutti gli altri ci credono. Il motivo, come le viene spiegato subito dopo, è che i maschi della famiglia Watsuji sono degli insaziabili predatori sessuali che non si fermano davanti a niente.
Tuttavia, un conto è sedurre una donna qualunque, un altro è tentare qualcosa di molto vicino a un incesto. I Watsuji fanno quadrato per proteggere sia Mako sia la reputazione del morto, anche nell’interesse dell’intera famiglia.
Harumi si fa convincere a diventare complice di una elaborata messinscena che da un lato dovrebbe far credere all’omicidio commesso da un ladro penetrato nell’immobile e da un altro dovrebbe garantire un alibi a Mako, spedita in tutta fretta a casa.
Benché la messinscena sia stata calcolata fin nei minimi dettagli, qualcosa va storto e, mentre il tronfio commissario Aiura Katsubei accetta senza farsi domande la versione ufficiale, il modesto ma tenace ispettore Nakazato Ukyo non ci casca e comincia a setacciare la casa alla ricerca di prove che la smentiscano.
Un intreccio alla Roy Vickers, o alla tenente Colombo
Fin qui il romanzo sembrerebbe una valida inverted story, un tipico intreccio alla Roy Vickers (come dicono i giallofili di serie A) o alla tenente Colombo (come dicono tutti gli altri), ma non si diventa la Agatha Christie giapponese per caso e il resto della trama riserverà parecchie sorprese.
Omicidio al Monte Fuji è proprio uno di quei gialli classici all’inglese che fanno la felicità di chi vuole misurarsi con l’abilità dell’autore a tendere tranelli. Essendo relativamente moderno, più che sulle trovate mirabolanti si concentra sui possibili moventi, nei quali si troverà la chiave per svelare l’enigma. Quindi, nonostante sia un mystery (un genere nel quale di solito i personaggi non sono molto approfonditi), c’è anche molta psicologia, sia pure elementare.