L’irresistibile fascino degli esploratori polari
Un luogo comune particolarmente trito e fastidioso è quello per cui le femministe odierebbero gli uomini. Forse può essere stato vero per qualche gruppuscolo insignificante, animato soprattutto da figure appartenenti all’universo LGBT+, ma per il resto è soltanto una calunnia. Se mai, alle femministe, come del resto a tutte le donne, non mancano buone ragioni per odiare certi tipi di uomini, anche se sarebbe più corretto chiamarli “omuncoli”.
Altri uomini, invece, perfino le femministe li amano al punto da perdonare loro qualsiasi difetto. Ad esempio, a giudicare dalle biografie che si possono leggere oggi, una categoria molto considerata è quella degli esploratori polari.
Per quanto Diana Preston si sforzi di essere rigorosa, la sua biografia del capitano Scott – Scott, l’eroe dei ghiacci – trasmette un senso di ammirazione che si estende perfino ai difetti, presentati come dimostrazioni di una fragilità umana che fa tenerezza.
Analogo discorso si potrebbe fare per Katherine Lambert quando scrive di George Murray Levick in L’inferno di ghiaccio e di Jennifer Niven quando racconta di Robert Bartlett in Prigionieri dei ghiacci. Nonostante la materia sia generalmente considerata distante dagli interessi del pubblico femminile, questo tipo di narrazione ha tutte le carte in regola per piacere alle lettrici più esigenti.
En passant, viene spontaneo notare che è raro trovare autori maschi capaci di mettere altrettanta partecipazione in una biografia al femminile. I soli esempi che mi vengono in mente sono Pietro Citati con Vita breve di Katherine Mansfield e soprattutto Heinz Frederick Peters con Mia sorella, mia sposa, anche se è difficile immaginare una persona, uomo o donna, capace di rimanere insensibile davanti al fascino di una figura come Lou Salomé. Se esiste, deve essere un mostro.
Tutti gli scheletri nell’armadio di Orwell
Dunque non c’è da stupirsi se proprio una femminista a tutto tondo (ma è anche molte altre cose) come Rebecca Solnit decide di consacrare la propria devozione a un personaggio come George Orwell. E lo fa nel 2021, ossia quando sono passati oltre 70 anni dalla sua scomparsa e tutti gli scheletri che si potevano trovare negli armadi sono stati tirati fuori. Pochi, per la verità: forse il peggio che si può dire è che fu un insaziabile seduttore ed ebbe molte donne, ma lo fu onestamente, senza pretendere da nessuna più di quanto questa potesse dargli.
Anche il suo primo matrimonio fu concepito, con il consenso di entrambi, come una “relazione aperta”. Poi lui ne approfittò continuamente, mentre lei molto meno, ma questo non cambia la sostanza. A parte questo dettaglio, si trattò di un matrimonio solidissimo, nel quale un uomo e una donna divisero ideali, utopie, avventure, rischi, privazioni e successi. È incredibile che nessuno abbia pensato ancora di farci un film, considerando anche che lui era un omone di un metro e novanta e lei una bellezza delicata dalle gambe snelle e i lineamenti gentili.
La moglie più intelligente possibile
La critica è concorde nell’affermare che, tra i tanti grandi scrittori inglesi del ‘900, a Orwell toccò la fortuna della moglie più intelligente di tutte, quindi citiamola con tanto di nome e cognome: Eileen O’Shaughnessy.
La recente (2020) biografia a lei dedicata (e mai arrivata in Italia, purtroppo) da Sylvia Topp le attribuisce tanti di quei meriti da spingere qualche esaltata ad affermare che il marito la sfruttò e la plagiò. Messe da parte queste sciocchezze, si deve riconoscere che era una donna dotata di un grande talento e che, pur essendo indipendente ed emancipata, non esitò a metterlo a disposizione del marito, spinta esclusivamente dall’amore nei suoi riguardi. La sua morte, nel 1945, a soli 39 anni, durante un intervento chirurgico, fu un grave colpo per Orwell.
La seconda moglie
Anche la seconda moglie di Orwell, Sonia Brownell, per lungo tempo lasciata nell’ombra o apertamente vilipesa, appare oggi come una donna notevole. Si possono leggere interessanti biografie su di lei, in particolare quella di Hilary Spurling del 2003 (anche questa, manco a dirlo, mai arrivata in Italia) che sottolinea come questa ragazza bellissima e spregiudicata si avvicinò a Orwell pensando di agganciare uno scrittore di successo e finì per amarlo al punto da convincerlo di poter guarire dalla grave tubercolosi di cui soffriva.
Orwell infatti morì per un’improvvisa emottisi la notte del 21 gennaio 1950, mentre Sonia stava organizzando il trasferimento da Londra alla Svizzera, dove si riteneva che sarebbe stato curato molto meglio.
Al contrario di Eileen che era una psicologa uscita da Oxford, Sonia era una segretaria autodidatta, appassionata soprattutto di arte. Lucien Freud fu suo amante e Francis Bacon il suo migliore amico. Inoltre, prima di Orwell, aveva avuto un’importante relazione con il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty.
Da vedova di Orwell fu una figura influente della cultura inglese, estremamente determinata a difendere la memoria di lui dagli attacchi che arrivavano da tutte le parti, ma capace anche di spendersi per cause di civiltà. Ad esempio quelle a favore degli omosessuali: da ciò la diceria che fosse lesbica, che a quel tempo poteva portare in galera.
Rovinata da un amministratore disonesto, morì a 62 anni nel 1980, oppressa dai debiti e dall’alcolismo, ma rimpiangendo solo di non essere stata una buona custode della fama postuma di Orwell.
Probabilmente, la Solnit avrà pensato che, se due donne come Eileen e Sonia sono state tanto devote a Orwell, ci saranno state sicuramente ottime ragioni. Anche se nel suo libro la figura di Eileen è onnipresente e Sonia viene citata giusto una volta.
D’altro canto, il libro non parla solo della vita coniugale di Orwell. Il suo titolo, Le rose di Orwell, è già un programma. Le rose sono quelle che lo scrittore – appassionato di giardinaggio, agricoltura e qualsiasi cosa avesse a che fare con la natura – coltivava con impegno nella sua casa più nota, il cottage di Wallington (Hertfordshire, un’ora e mezza dal centro di Londra) in cui visse durante il matrimonio con Eileen.
E le rose di Orwell, piantate nel 1936, esistono ancora, a differenza delle colture agricole che si sforzò di far crescere sull’inospitale isola scozzese di Jura, dove trascorse gli ultimi anni di vita attiva.
Le rose di Orwell e i limoni di Stalin
La passione di Orwell per le rose viene considerata in parallelo con quella del suo “nemico giurato”, Stalin, che invece era ossessionato dai limoni e li faceva piantare dappertutto.
Il riferimento a Stalin permette alla Solnit di citare la diatriba che nell’URSS degli anni ’30 oppose Trofim Lysenko (lamarckista e prediletto da Stalin) a Nikolaj Vavilov (darwinista e mendeliano, per questo poco amato dal dittatore).
Lysenko ebbe carta bianca per sperimentare le sue sgangherate teorie sugli ibridi vegetali, rovinando i raccolti e contribuendo a carestie che uccisero milioni di persone. Invece Vavilov raccolse la più vasta collezione di semi di piante edibili esistente al mondo, ma finì arrestato e condannato per non aver rinunciato a insegnare Darwin e Mendel all’università e morì d’inedia in un gulag. La stessa fine fecero quattordici suoi collaboratori sfuggiti ai processi, che preferirono affrontare la fame durante l’assedio nazista di Leningrado pur di non toccare i semi della preziosa collezione.
Bread and Roses
Orwell non amava le rose solo per considerazioni estetiche, così come la Solnit non ama Orwell solo per emulare Eileen e Sonia. Lo spirito femminista della Solnit emerge orgogliosamente quando precisa che le rose non sono solo un classico fiore da dichiarazioni amorose, ma molto di più. Nel 1910 le suffragette americane dell’Illinois Helen, Lucy e Maggie Todd coniarono lo slogan “Bread for All, and Roses Too” (pane per tutti, e anche rose) per indicare che le lotte sociali non si basavano solo su rivendicazioni economiche, ma avevano l’obiettivo di un reale miglioramento nella vita di tutti. Anche se l’anno dopo sarà il poeta James Oppenheim a diffondere in versi l’idea del “Bread and Roses”, questo passaggio è un fondamentale contributo delle donne alle ideologie progressiste.
Orwell ecologista
Ma alla Solnit, che è anche ecologista e No Global, le rose servono per spiegarci che l’apparente conservatorismo di Orwell nasconde una profonda coscienza sociale ed ecologica. Orwell era uno che preferiva case senza alcun comfort, con le candele al posto dell’elettricità e il pozzo invece dell’acqua corrente. Possiamo solo immaginare quanto si sia dovuta sforzare la povera Eileen per sopportarlo.
Lo scrittore non disprezzava le comodità in quanto tali o perché contrario al progresso, ma perché sapeva che dietro la corrente elettrica c’erano le centrali a carbone e dietro le centrali a carbone c’era lo sfruttamento indiscriminato dei minatori. Sul tema scrisse anche uno dei suoi migliori libri, La strada di Wigan Pier.
Da americana, la Solnit non può fare a meno di notare, con profonda amarezza, come oggi le rose in vendita negli USA provengano quasi esclusivamente dalla Colombia, dove sono coltivate in modo intensivo da una manodopera locale schiavizzata dalle multinazionali. Perciò si domanda cosa penserebbe Orwell di questo assurdo destino toccato al suo fiore più amato e a quanto rappresenta.
Destino che appare come una riedizione di altri destini dei secoli passati, come quello dello zucchero e degli altri prodotti coloniali che tanto hanno contribuito allo sviluppo economico della potenza britannica e alle ricchezze della sua aristocrazia: tutto cresciuto sulla fatica e sul sangue degli sfruttati.
Orwell infatti, pur essendo appassionato di tè come di tutte le caratteristiche usanze inglesi, lo prendeva sempre senza zucchero.
La scomparsa del confine tra vero e falso
Sembrano dettagli insignificanti e forse lo sono. Ma bisogna conoscerli. George Orwell ha dedicato ad essi gran parte della sua opera di saggista che, probabilmente, è ancora più importante di quella di narratore.
“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per cui la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più”.
Scrive la Solnit citando Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt.
A tale proposito, vale la pena di ricordare come in una recente (2022) intervista, il figlio di Orwell, Richard, abbia dichiarato di essere costantemente impegnato per evitare che i social network si riempiano di citazioni false o manipolate del padre.