Dissero che il corpo era ancora caldo. La scientifica stabilì l’ora del mio decesso intorno alle otto e quindici di quel mattino di primavera ancora pungente della brezza residua dalla notte appena dismessa. A dir il vero non son sicuro che mi si addica un trapasso in piena luce solare; nutro forti dubbi sulla perizia legale in tal senso.
Gli esperti frugarono ogni angolo dell’appartamento, infilarono il loro occhio cieco in ogni pertugio, rovistarono in ogni spazio che potesse assumere la forma di un contenitore e nascondere qualcosa, quel qualcosa che dischiude alla cosiddetta soluzione del caso.
Non tralasciarono di rilevare un non indifferente quantitativo di impronte digitali sulle più disparate superfici della camera ove giacevo, manichino, sull’autorevole sedia posta dietro la scrivania di mogano tanto riecheggiante un sarcofago, promemoria di una fine prossima.
Quanto frastuono nell’apparente quiescenza in cui si dipanavano i minuziosi rituali investigativi di stimati professionisti dell’anticrimine ma che garbo nel profanare l’altrui, in parte curiosi, in parte inespressivi, lisi dalla monotonia di un’attività routinaria.
Si occuparono di me a termine delle loro operazioni e mi accorsi di quanto fossero scrupolosi nel dettaglio, proprio come raffigurati in libri e pellicole.
Aprivano, chiudevano, si soffermavano, poggiavano sguardi e polpastrelli negli anfratti, annusavano l’aria, di continuo, alla ricerca di chissà quale effluvio rivelatore e, forse per questo, non spalancarono mai le finestre. Sopraggiunse il mio momento.
Non pochi fotogrammi mi furono dedicati da plurime angolazioni, infierirono anche con ripetuti primi piani. Ottennero, in breve, del sottoscritto il maggior numero di immagini mai realizzato.
Il sottoscritto, guardatelo, il volto tra l’estatico e l’esterrefatto, un enigma con marcate striature di felicità secondo quanto ebbe a notare un assistente del commissario mentre stavano per allontanarmi dal mio studio prediletto. Confesso che avrei voluto supplicarli di abbandonarmi, di chiudere un occhio e lasciar perdere tutto, di non ostinarsi a volermi portare via; che mi seppellissero lì ove era stato il mio posto per anni, ove avevo macchinato ogni piccola personale miseria.
Invece no, eccomi calato in una sorta di bara col coperchio ancora solo poggiato.
Avrei potuto approfittarne e tirarmi fuori ad averne la forza: non andò così e la tavola di pressato oscurò tutto. Immaginai l’uscita dal mio appartamento taciturna e in penombra come l’avrei rappresentata, con un lento carrello indietro attraverso le porte e il corridoio sino all’ingresso e lungo le scale ampie giù sino al portone.
Buio adesso. Non il minimo tepore. Vuota questa stanza schiarita dal tenue bagliore ramato di una lampadina appassita, prossima ad esalar l’ultimo respiro.
Una nuova sera, in memoria di tante altre fatte di spaghetti tirati fuori dalla pentola, resi neri e acri da una spessa coltre di pepe e nient’altro, incanalati giù per quel maledetto esofago dalla peristalsi mai sopita seppur dinanzi alle più immonde proposte culinarie.
Ore sciupate in gesti scevri del più banale significato. Soluzioni alimentari prive di raziocinio cariche di cattivo gusto come avrebbe detto Mirna, mia moglie: ne ho posseduta una anch’io, come si può possedere un’agenda elettronica che si relega in un cassetto.
Restammo estranei. Finimmo tramutati in cani.
Eccomi allora. La grande malattia aveva preso, un mattino di qualche mese prima, a zampillare come acqua fetida che, balbettando al suo esordio, sgorghi poi vigorosa e sulfurea, malattia che asciuga sino ad arrenderci a quella che è la granitica promessa originaria.
Disteso qui, accanto a quest’altro che una mano dannata, sgozzandolo per poche lire, ha sottratto a quegli affetti che, in questa cella, a turno, riverseranno il loro strazio.
Le sue creature, virgulti dal volto fiero, fissi in un vuoto d’angoscia per il genitore vilipeso in quella fine degna di un malandrino. Belli nel loro cordoglio. Belli in quella che pretende sia la loro ultima pena, mi ha confessato all’alba.
«Non dovranno più soffrire», ha sentenziato battendo i pugni sulle pareti fresche di resina della sua cassa dignitosa.
«Meritano, mi creda» ha assicurato.
«Vedrà i loro volti. Trasparenti come cristallo!» mi ha preparato con sanguigno orgoglio.
«Figlioli miei. Mia gioia», li ha invocati. «So che accorrete increduli, ma vi terrò in vita. No. Nessun proposito insano di seguirmi!»
Con altero spregio: «Non sono un suicida. Sono stato padre degnissimo», ha garantito ancora.
Così, alla prima luce, il mio vicino nella fiduciosa attesa di incontrare i suoi eredi quando due salapuzi e segaligni, nel bianco ambiguo di una cappa che induce il pensiero verso i Macelli Generali, appaiono e additando il legno che mi riveste hanno a dire: «Quello lo festeggiamo a stomaco pieno, verso le quattordici».
«Cosa ci sarà mai da festeggiare se lo stomaco è già pieno» mi interrogo perplesso ma il mio compagno, caustico, corre in ausilio.
«Ti operano!» annuncia.
«Si! Fai conto che ti operino», la mette tranquillo.
«Operarmi?» temo ad alta voce.
«Non ti è mai capitato?»
«No!» replico indignato.
«Bene! Saranno loro i tuoi chirurghi».
«Cosa?» tremo nel rigore delle membra.
«Vedrai che intervento… Completo!» ridacchia.
Tace d’improvviso. Freme: i suoi, già prossimi ad affrontare il viale che li condurrà a questa stanza. Li vedo anche io… Alle loro spalle non scorgo i miei orfani e credo di stupirmene ma ogni tentazione di meraviglia viene bandita: sento la voce delle mie creature.
«Mio padre!» dichiarano.
Così si dispongono alla mia dipartita, con losche allusioni e credenze, delegando altri delle mie esequie comprese di una preghiera sommaria mormorata da un prelato d’ufficio, tanto quel Dio misconosciuto non ribalterebbe il verdetto unanime degli uomini neanche se Sua Santità in persona innalzasse una prece in mio favore.
«Figlioli!» gemo.
«Operatelo pure» liberano le loro bocche.
«Venite… Siate clementi».
«Operatelo!» spronano ancora.
«No! Venite» in un lamento.
«Operatelo!» gridano.
«Accorrete! Almeno per decenza», oso nella mistura tetra di luce primaverile e dolciastro di garofani e gigli.
«Che non rimangano di lui neppure le ossa», squarcia insospettato un minaccioso coro femminile.
«Nooo!» palpita in un sommesso gemito una donna senza età: è mia madre.
Il coro la sfregia con miopi risa affilate come lame. Non si presenta nessuno, neppure per constatare che sia proprio io l’asserito defunto: fanno affidamento sull’Autorità.
«Basta! Non piagnucoli più», si spazientisce il cadaverico compagno.
«È deciso così… E poi il suo corpo permane per sempre, ricordi, sotto la giurisdizione degli uomini. Li lasci fare. C’è chi ci campa!»
Mi zittisco nell’attesa penosa; mi tocca ancora il degnissimo che mi porge un consiglio: «Se ne stacchi» sussurra rapido. «Se ne stacchi! Faccia presto!»
Consapevole del mio tacere frastornato, insiste: «Si deconnetta!»
Ulteriore prostrazione trasalisce al persistere dell’incomprensione e, compassionevole, urla come nella furia della tempesta: «Abbandoni la carne! Getti via il fantoccio!»
Comprendo e sperimento ma non riesco.
«Su! Su!» mi incoraggia. Mi concentro nello sforzo, esausto demordo nell’annunziarsi grave di due tocchi lugubri del campanile di Nostro Signore Assassinato.
Si presentano, puntualissimi, quali mai altri impiegati, mi sollevano su un carrello e scorro davanti all’attonito lume di quel brav’uomo e padre degnissimo che al mio «Arrivederci» ricambia caritatevole: «Addio!»
Mi introducono in un frigidario (questo vano in cui un termometro non si arrampica oltre i dieci gradi) accecante seppur nella fioca luce naturale che vi si rintana da un’infelice finestrella in alto a una delle pareti laterali; accecante per la complicità di una ubiquitaria ceramica alba, perfetta nel mimetizzare ogni primo attore su quel palcoscenico. Impercettibile pendio del pavimento conduce a due comodi tavoli d’acciaio corredati di rubinetteria. Adiacenti in un legame ideale sebbene autonomi. Disponibili ad un’esibizione contemporanea. Sforzo ancora, potente, come a voler sfondare chissà qual porta ma rimango intrappolato nel fantoccio: mi concedo, totalmente.
Il carrello si ferma sul lato lungo, ribaltata un’anta del legnaccio mi strisciano sul bancone.
Il mio corpo sembra non obbedire tentando come una sortita fuori dal bordo, adunca una mano nerboruta e guantata lo solleva per i capelli e lascia che ricada pesante sulla griglia.
Sul tavolo. Adamitico. Incombe un debole mitto scaturito da uno dei rubinetti: l’esecuzione, per gradirvi. «Dille che l’acqua già scorre». Fa il corto all’altro disponendo gli attrezzi su un tagliere.
«Sono qui!» si annuncia nel suo ingresso sinuoso componendosi i lunghi fili d’ebano in uno chignon che lascia esplodere un collo opera rinascimentale e nel colpo d’occhio che ancora una volta, in un rito scrupolosamente onorato, si scambiano il corto e il compare si staglia la sudditanza a quella donna che una leggenda stupida vuole dedita, in questo ingrato compito, soltanto a pazienti maschi. Mi lancia un’occhiata intensa di sfida, poi, rivolta al corto, comanda «Comincia pure. Ho fretta».
Con apposito tagliente, in un unico moto, percorre dal giugulo giù sino al pube scollando la carne dal piano sterno-costale, spalancando poi l’addome.
Impugnato un trincia ossa, partendo a metà delle arcate, assesta caparbio un colpo sull’altro ad aprire uno sportello nel torace.
«Prego dottoressa», si arresta con sussiego.
«Oggi non ne hai voglia» replica squadrandolo.
«Non posso, lo sa» precisa ossequioso.
«Certo. Certo» conviene seccata l’ancella di Tespi.
Ghermisce il ferro ed estrae in un impeto crescente il cuore pallido e i lividi polmoni.
Si accanisce sull’esofago che oppone resistenza.
«Andiamo!» intima come un miliziano sul campo. Dilata la vista sull’addome, lì pieno come un forziere e, con occhi stravolti, vaneggia: «Ecco la maschia ricchezza!»
Brandendo, nell’esatto punto, l’intestino piccolo, lo seziona delirando oltre.
«La vuoteremo!»
Inizia a scorrere sulla collerica lama il lunghissimo budello fino ad interromperlo in alto. Scandaglia l’orrida spelonca recando a quell’aspra luce ulteriori doni: una robusta milza, un fegato grasso, uno stomaco enorme, un calcifico pancreas, ancora tanto maleodorante colon ed altro. La rende vacante. I toni assumono quelli della solennità quando, nel crepuscolo della cerimonia, con mano loquace di un’esperienza antica e sublime, nella vampa di un travaglio rinnovato, mi castra. «Altro orgoglio!» ne ride in faccia al corto e getta ancora di lato, sotto quel mencio pisciare del rubinetto, anche la prostata strappata.
Depone l’arma e proclama: «Per me è tutto. Chiamate il mio assistente. Terminerà».
È un attimo. Avvolgendolo in una melodia vocale e di gesti lo istruisce.
«Apri i pezzi. Descrivili con cura, campionandoli uno per uno. Poi butta tutto dentro e lascia che chiudano».
«E il cervello?» osa il giovane.
«Già… Il cervello!» Pare esitare liberandosi della cappa ad illanguidire gli animi dallo strapiombo di una scollatura che osanna, nel dorso, un’arte magistrale.
«Irrilevante! Ma… Per completezza», ammette la sacerdotessa nel distaccarsi.
Scoperchiano la teca a esibire un essere sofferente. Lo rimuovono e con lieve slancio lo spingono a rotolare fra le basse interiora. Trovo quest’atto d’indubbia irriverenza a tal punto che mi si sarebbero inumidite le pupille se solo non condannate alla fissità. Che modi! Il mio segreto è li!
Manca unicamente un’interpretazione materiale e fittizia da fornire per un decesso così stravagante. Affettano e catalogano frammenti di quel cuore che non si sminuì mai in sussulti per un amore da inebetire sino a spirarvi tra le braccia; di quel cervello, deserto di pura chimica, dinanzi al disperare dei miei piccoli per una carezza d’aiuto sul velluto infantile delle gote; di quello stomaco, unico di indiscusso successo, sfiancato ora da una replezione non tollerabile.
Nessuna evidenza d’infarto: pervie le coronarie, pervie le cerebrali, equanime la morte. Rimescolano in fretta, nell’ampia cavità, ogni residuo viscerale…
Quel che un tempo era riposto al riparo delle meningi, si ritrova, a fette, a bloccare, parzialmente, la fecale fuoriuscita dal retto troncato in fondo alla pelvi.
Lo spago, misericordioso, ricompone, il fantoccio.
Non mi riconosco in alcuna voce di neonato che qualche padiglione più avanti ha preso, benvenuta, a strillare nella sera. Sono passato e basta. Estraneo alla mia progenie, ad anonimi onirici compagni. Non so se interessi come è andata: estraneo anche a me stesso sono crollato, esaurito un lauto e ripugnante pasto di scatolette, al culmine di un atto masturbatorio nella quiete maleodorante del mio abituro.
Non so che dire.
L’ho letto in fretta, come saltando la morte.
Guardandola di fianco.
Ma certo solo un medico può scrivere con dettagli.
Forse è interessante, ma non ce l’ho fatta: correvo…
Da piccola ho visto molti libri di medicina che erano orrorifici. Decisi di non studiare quella carriera così coraggiosa ma anche dura.
Si vede che non ho superato il trauma.
Auguri per lo scrittore che potrà continuare a raccontare tanti casi particolari; alcuni miracolosi.
Complimenti per la splendida scrittura e per l’originalità del contenuto.