Una scrittrice di fine Ottocento, tra i primi fremiti femministi, ci racconta storie argute, scorrevoli e sorprendentemente attuali.
Nel suo scherzoso galateo del 1877, La gente per bene, appena ristampato, dice che non vuole dare lezioni agli uomini sul modo di vivere perché sa “che nella divisione dei doni della Provvidenza l’intelligenza è toccata tutta a loro”. E già da questa frase si capisce dove va a parare Maria Antonietta Torriani in arte Marchesa Colombi: sarcastica femminista ante litteram che canzona con garbo la vanità maschile e smaschera con pacatezza l’avvilimento delle donne nei sentimenti, nel matrimonio, nel lavoro.
Colta, progressista, prima columnist del Corriere della Sera fondato a Milano nel 1876 da suo marito Eugenio Torelli Viollier, questa spiritosa romanziera nata a Novara nel 1840 mette in scena ragazze sempre in attesa di un fidanzato, corteggiatori infingardi, angusti interni borghesi popolati da zie zitelle e matrigne arcigne. Ed è tornata da poco in grande spolvero nei cataloghi on line di Mondadori Store e Feltrinelli che annoverano parecchi dei suoi titoli: il delizioso Un matrimonio in provincia, In risaia, Cara speranza e molti altri, su cartaceo e su eBook.
Marchesa Colombi
Conferenziera di successo e accanita sostenitrice dell’istruzione femminile, con La gente per bene ella è spigliata, chiacchierina. Insegna le buone maniere alla signorina innamorata, alla signora sposata, alla vegliarda canuta. E ridicolizza il marito che riceve le gentilezze della moglie “in silenzio, come un tributo che lei deve per obbligo al suo signore e padrone”, esortandolo a non trattare la consorte “come un gioiello che si lascia sopra una tavola” e che non può “attirare nessun ladro” perché ciò induce spesso “la moglie a lasciar venire il ladro”.
Spigliata e chiacchierina
ma poi si fa seria
Ma ecco che si fa seria nel romanzo In risaia del 1878: tutto intorno ferve il racconto sociale, autrici come Matilde Serao e Clarice Tartufari condannano i lavori sottopagati di maestre e telegrafiste, e la Colombi descrive la terribile fatica delle mondine del novarese tra malaria e acqua gelida. Nanna, la protagonista, partita per guadagnarsi qualche soldo e comprarsi così gli spilloni d’argento per l’acconciatura da sposa, torna al paese incattivita, sfigurata dal tifo e senza più nessuna prospettiva di nozze.
La storia, degna del verismo di un Verga o di un Capuana, ispirò ad Alaide Beccari (fondatrice del periodico “La Donna”) il suo intervento nello sciopero delle mondine del 1887, e servì nel 1902 al socialista Angiolo Cabrini per dibattere in Parlamento l’occupazione femminile. Tra denuncia e biasimo la Colombi non tralascia però le sue frecciatine frizzanti, appuntate, indovina un po’, sul personaggio maschile: il carrettiere Gaudenzio, “ammirazione di tutte le fanciulle del circondario”, un gran materialone che ammira “le gambe grosse come colonne, i petti turgidi da squarciare il corsetto” e che, fidanzandosi con la delicata Lucia, si ripromette di farla ingrassare a dovere dopo il matrimonio…
Cara speranza
Anche l’Amelia di Cara speranza (1895) è una contadina sciupata precocemente da fatiche massacranti: ella aspetta con fede incrollabile le lettere del fidanzato bersagliere e risparmia per lo sposalizio ogni centesimo duramente guadagnato, ma, quando ormai manca poco all’attesissimo evento, si ammala e muore.
I suoi fratelli arraffano senza scrupoli il gruzzoletto così faticosamente raggranellato, il bersagliere ha una reazione assai contenuta davanti alla sua salma (“Accidenti, come era vecchia!”) e le lettere, che lui liquida in quattro e quattr’otto (“Oh, sono sciocchezze!”), finiscono bruciate.
La riscoperta di Ginzburg e Calvino:
Un matrimonio in provincia
Tutti questi spunti tra amaro e risibile, tra comico e malinconico, rendono magistrale Un matrimonio in provincia scritto nel 1885, riscoperto nel 1973 da Natalia Ginzburg e Italo Calvino per le Centopagine Einaudi, e più volte riproposto fino ad oggi. Qui la Colombi indaga i sommessi soprusi che affliggono la donna in famiglia, forse i più pericolosi perché i più ambigui, e presto riassunti in due parole: se non sei moglie e madre, non sei nessuno.
La trama è tenue: Denza Dellara, bella ragazza di buona famiglia ma senza dote, aspetta per anni la domanda di matrimonio dell’imponente Onorato Mazzucchetti, e invece lui, alla fine, impalma un’altra più ricca. Le illusioni di Denza si frantumano sotto un’unica, lapidaria frase: “Sposa la Borani!”. Terrorizzata dallo spettro dello zitellaggio – “la matrigna spietatamente sincera, disse: non sei vecchia, no, ma sei una giovane matura” – Denza si accasa in fretta e furia con il primo che le capita, un notaio quarantenne, accettato con supina rassegnazione. Si seppellisce in un’umida e sperduta campagna, scodella tre figli. La sua battuta finale sintetizza a perfezione il disagio del corpo e il disagio dell’anima: “Il fatto è che ingrasso”.
Piccoli drammi ruvidi tra le pareti domenstiche
Diverse scrittrici dell’epoca, da Beatrice Speraz ad Anna Franchi, a Sibilla Aleramo, analizzano con tocchi più drammatici queste frustrazioni nascoste dietro un sorriso rassegnato. Neera (pseudonimo di Anna Maria Zuccari) nel suo romanzo L’indomani del 1889 attribuisce senz’altro la depressione della protagonista Marta all’atteggiamento del marito (“Molte volte, dopo aver scritto a sua madre che ‘si adoravano’, Alberto entrava e non si scambiavano neppure un bacio; lui serenamente freddo, lei distrutta…”).
Ma la Colombi, con la sua prosa leggera ed amena, è da ricondursi piuttosto alla Serao e alla sua novella La virtù di Checchina (1883): donnetta arcistufa del marito, uno scialbo chirurgo casereccio che non le dedica più un complimento perché, dice lui, “ormai ti conosco” e “questo civettìo non serve più”.
Anche la Colombi eccelle in questi piccoli drammi ruvidi, senza grida, tra le pareti domestiche, nello struscio sul corso, alla messa domenicale. Il Mazzucchetti è buffissimo, un vero volpone (e quanti ce ne sono ancora oggi): espone Denza alle battutine delle cugine (“Ah! la domanda di Mazzucchetti! È il tuo vascello fantasma, quella domanda!”), e poi, ormai ammogliato, continua a saettarle occhiate di fuoco ogni volta che la incontra per strada, così, per abitudine. La matrigna taccagna, nelle rare soste al caffè, ordina due gelati che spartisce tra quattro persone suscitando la derisione dei camerieri. E la zia di Denza, nubile, dorme dietro un paravento in cucina – è un peso per i parenti, e che, pretende pure una stanza?
Insomma, aveva ragione Calvino quando osservò che questo romanzo trasmetteva “il massimo di tristezza col massimo di allegria poetica”. E brava la Marchesa Colombi! che sa farci ancora sorridere e ancora riflettere.