Poco tempo fa da Altroquando, una delle mie piccole librerie di fiducia qui a Roma, mi sono imbattuta per caso nella collana “Razione K”, dedicata ai reportage letterari, della Keller editore. Questa casa editrice, forse ancora poco conosciuta, è stata fondata a Trento nel 2005 e si occupa di narrativa, saggistica e, appunto, reportage, pescando soprattutto dal bacino di letterature e culture della Mitteleuropa e dell’Europa orientale.
Tra vari titoli ho scovato L’amore di pietra. Una vita con un corrispondente di guerra della scrittrice e viaggiatrice polacca Grażyna Jagielska, classe 1962, e non ho avuto esitazioni nella scelta.
Mio nonno fu un corrispondente di guerra per un giornale argentino. Non l’ho mai conosciuto, se non attraverso i racconti e ricordi di mio padre. Sentivo che questo libro mi avrebbe portato più vicino a quello che era il suo mondo e alla vita di chi lo amava e aspettava trepidante i suoi ritorni.
In L’amore di pietra, l’autrice ci racconta cosa vuol dire vivere accanto a uno dei maggiori reporter di guerra polacchi, Wojciech Jagielski, che rischia costantemente la morte sul lavoro. E ce lo racconta da un istituto psichiatrico in cui ha trascorso 147 giorni, dopo che le è stata accertata una diagnosi per “disturbi post traumatici da stress”, anche se lei in guerra non c’è mai stata.
“Sono passati tre mesi da quando mi hanno ricoverata nella clinica psichiatrica con sintomi da stress post traumatico. In realtà si tratta dello stress di mio marito, solo che lui ha sempre riversato tutti i suoi problemi su di me”.
Grażyna racconta a ritroso la sua storia a due uomini. Uno è Lucjan, un altro paziente dell’istituto, reo di aver ucciso il marito della figlia. L’altro è il suo medico, detto “il Canuto”. Attraverso di loro ripercorre la sua vita, da quando ha conosciuto Wojciech, a quando, a causa del lavoro di lui, si è ritrovata in ospedale. L’autrice porta il lettore a capire cosa è andato storto nella relazione con Wojciech ed è come se, una pagina dopo l’altra, lo scoprisse anche lei.
“Avevamo una passione in comune, io e mio marito corrispondente di guerra: quella di esplorare il mondo.”
Così è iniziata la loro storia, all’insegna di una valigia sempre pronta, di una passione che li faceva sentire unici e diversi rispetto agli altri che si lasciavano intrappolare in un modello di vita convenzionale. Lei studiosa di indologia, lui di africanistica, entrambi condividevano il sogno di una vita nomade in giro per il mondo. Fin da subito, però, l’essere in viaggio era concepito dai due con intensità differenti. Per Grażyna voleva dire osservare, assaporare tutte le cose belle che le stavano intorno. Per Wojciech era una vera e propria vocazione, “come separare la vita dalla morte”.
L’amore di pietra
La prima crepa arrivò nel momento in cui Wojciech riuscì a farsi assumere in un’agenzia di stampa polacca (PAP), in cui redigeva dispacci al turno del mattino. Grażyna invece accettò un posto fisso nella Banca Mondiale. Da allora non tardò ad arrivare quella monotonia di una vita comune da cui avevano sempre cercato di fuggire, anche se Grażyna sperava fosse solo un momento di passaggio.
“All’epoca abitavamo in un sobborgo meridionale di Varsavia, e avevamo appena introdotto nuovi elementi nell’intreccio della nostra vita: un bambino, un cucciolo di cane di tre mesi e un gatto di poche settimane. […] Erano semplici ingredienti di quella vita provvisoria che avremmo condotto solo fino a quando non sarebbe arrivato il momento di riprendere le vie del mondo.”
Così però non fu. Wojciech cominciò la sua esperienza come corrispondente di guerra. Dapprima andò in Ossezia del Sud, poi in Abcasia, e così via in un’escalation di guerre che negli anni l’hanno portato in giro per l’Africa, l’Asia centrale, il Caucaso e la Transcaucasia, l’Afghanistan, il Tagikistan, la Cecenia e la Georgia, per un totale di 53 reportage documentati nella prestigiosa “Gazeta Wyborcza”.
Grażyna si rese conto che tra lei e il marito si era creato un vuoto e si convinse che la pienezza della vita, lui l’avrebbe sempre ricercata al di fuori di lei. D’altro canto, l’imborghesimento, una casa e la presenza fissa della moglie, rappresentavano per Wojciech quel punto di riferimento, quella forma di stabilità che aveva bisogno di ritrovare al ritorno tra un servizio e l’altro, per potersi sentire al sicuro.
La logorante attesa del ritorno
Quando Wojciech partiva, per Grażyna cominciava la logorante attesa. Quel “tempo strano, che fa danni enormi e indelebili, persino se si è capaci di aspettare”… l’attesa del ritorno di suo marito sano e salvo, oppure dello squillo del telefono che avrebbe potuto portare la notizia della sua morte.
Persino il ritorno del marito, tanto desiderato, era temuto, perché avrebbe significato nuove partenze, nuove guerre, nuove storie di massacri e violenze che lei era costretta ad ascoltare perché Wojciech sentiva il bisogno impellente di raccontarle, ingigantendo così il malessere della moglie.
La guerra, oltre che fuori, Grażyna se la portava dentro.
“Volevo essere come tutti gli altri, desideravo fare parte di quel grande gruppo di persone che vivevano senza avere paura delle guerre, che anzi nemmeno avevano idea di cosa fosse una guerra. Per nessuno tranne me era una minaccia concreta. Desideravo vivere nella stessa epoca esente da guerre in cui vivevano i miei conoscenti, i vicini di casa, tutte le persone in città. O forse volevo far capire a Wojciech che stavo soffrendo.”
Il racconto lineare del crollo psichico dell’autrice, ben lontano da una “romanticizzazione” estetizzante, lascia spazio a incursioni da un altro mondo: quello delle persone che nei territori bellici hanno incrociato Wojciech. Come la cecena Taya di Argun, vittima di ripetute violenze sessuali, o Merab Kakubava, un ragazzo georgiano massacrato. Due figure che ricorrono nel testo in maniera quasi ossessiva e che sono come fantasmi portati in casa da Wojciech, con cui Grażyna si ritrova a fare i conti nei momenti più acuti della sua depressione. Immagina i luoghi e le persone che il marito ha incontrato e sempre di più cresce in lei la paura della sua morte, alla quale si sta preparando ormai da vent’anni.
Un sottile manifesto del giornalismo di guerra
“In questo mestiere c’è qualcosa che porta chi lo esercita a un’abnegazione assoluta, e lo capivo. Non riuscivo invece a comprendere che cosa rendesse il fatto di relazionare gli eventi così fico. Così maledettamente fico che a confronto la vita vera, quella reale, sembrava incompleta, permeata di sconforto. Questo tipo di giornalismo ha molto in comune con una dipendenza.”
L’amore di pietra è anche un sottile manifesto del giornalismo di guerra, una riflessione sulle ombre di una professione che l’autrice arriva a definire, almeno per alcuni, una “dipendenza”.
Con estrema lucidità, Grażyna racconta cosa il giornalismo significasse per suo marito. Trovarsi per primo nei luoghi dove si è consumata la Storia diventò per lui un’ossessione. Significava sentirsi sempre sospeso tra adrenalina e una vocazione dal carattere quasi spirituale, in grado di dargli la pienezza che Grażyna era convinta non riuscisse a trovare nella vita di tutti i giorni.
“Nessuno ne sa ancora niente, te l’immagini? Lo so soltanto io, e ho la sensazione che dipende da me se verranno a saperlo anche gli altri.”; “Sono pienamente presente quando mi trovo nel posto giusto al momento giusto. In quel determinato istante non vorrei essere da nessun’altra parte.”; “È la sensazione che ti trovi nel posto più importante della terra e ne conosci ogni segreto. Hai l’impressione che le tue competenze, quello che farai, scriverai e osserverai, possano fare la differenza.”
La notizia davanti a sé
Il giornalista di guerra è spesso mosso da un’adrenalina che quasi non gli fa percepire il pericolo: davanti a sé c’è solo la notizia.
A causa di mio nonno, ho sempre ammirato il mestiere del reporter di guerra, considerandolo come un atto di immenso coraggio. Non mi ero però mai soffermata a riflettere su tutto il contesto che gli ruota intorno, fatto di mogli o mariti, o figli, di famigliari in pena che non hanno pace fin quando non lo rivedono varcare la soglia sano e salvo.
Con questo reportage, umano, intimo e commovente, Grażyna Jagielska ha raccontato chi la guerra non la combatte in prima linea, ma da dentro le mura di casa, lottando ogni giorno contro la paura della morte che a lungo andare logora a tal punto da provocare crolli psichici. Perché proprio come stiamo vedendo di questi tempi, l’orrore bellico, con il suo potere distruttivo, non ha confini geografici.
Grazie Gentilissima Chiara Riviere, per merito Suo, per aver suscitato in me la curiosità a saperne di più, acquisterò questo libro. Grazie.
È un grandissimo piacere! 🙏🏻