Amore, memoria e perdita in Baumgartner di Paul Auster

Baumgartner. Un uomo e una donna
Un uomo, una donna, Claude Lelouch

A pensarci bene, nel raccontare un libro che parla d’amore – in qualsiasi forma lo si declini – alla fine è facile tornare dalle parti di Tolstoj. “Tutte le famiglie felici sono uguali – scriveva nel celebre incipit di Anna Karenina – mentre ogni famiglia infelice lo è a modo suo”. E allora, quando ci si confronta con quella che può essere l’infelicità più tipica nella vita di ciascuno – il lutto per la perdita del compagno dell’esistenza – non sorprende che la letteratura possa fungere da cartina di tornasole per evidenziare consonanze emotive e percorsi di sopravvivenza.

Baumgartner

In questo senso, l’ultimo romanzo di Paul Auster, Baumgartner, ha tutte le caratteristiche per iscriversi al lungo rosario di storie sul tema, ma lo fa con un taglio diverso, per certi versi davvero originale, che trascina il dolore sulle sponde di un quotidiano in apparenza meno sacro rispetto alla causa scatenante.
La storia narrata dallo scrittore statunitense copre un lasso di tempo relativamente breve perché Seymour Baumgartner, professore di filosofia, ha perso sua moglie Anna, traduttrice e poetessa, in età avanzata, anche se in una maniera così repentina e traumatica – durante un tuffo in mare – da destabilizzarlo ulteriormente.

Paul Auster. Baumgartner
Paul Auster

Ciò che avviene dopo rientra nel quadro più classico del genere: senso di irrealtà a cui segue un disorientamento paralizzante. La vita perde di significato, il passato incalza, i desideri si affievoliscono. Ma Auster racconta tutto questo con periodi rapidi, quasi sorvolando su ciò che può sembrare persino una ovvietà, tenendo conto del tipo di rapporto che esisteva nella coppia. Allo scrittore infatti, interessa altro, e lo si capisce dal tempo che utilizza nella narrazione – il presente – perché è lì che Baumgartner vive l’enormità del suo lutto, accettando di farlo modificare dalla quotidianità.

Così Seymour può avere incidenti domestici, scoprire la simpatia di una postina o verificare la sorprendente gentilezza di un operaio, senza che questo, in apparenza, intacchi il nocciolo della sua disperazione. Così, dieci anni dopo la morte di Anna, ha scoperto di essere ancora in grado di scrivere libri e persino di corteggiare altre donne, tutto questo mentre, ad esempio, rende giustizia alle qualità letterarie di sua moglie – fin lì sottovalutate – E rimane in comunione con lei al punto da avere una conversazione telefonica notturna, a metà fra l’allucinazione e l’ammonimento.

La vita non è più forte del dolore ma può modificarlo

Livelli di vita. Julian Barnes

Nessuna meraviglia che Anna ormai appartenga a un’esistenza diversa dalla sua, ma anche lei sembra avere bisogno di essere liberata e Baumgartner questo lo percepisce fino in fondo, tanto da arrivare persino a intraprendere una relazione e chiedere in matrimonio una storica amica comune.
Auster, però, non si ferma neppure qui, alle umoristiche goffaggini – lontanissime dalla sacralità del lutto perenne – e neppure alle amare disillusioni. La prosa leggera ci porta sempre avanti, persino quando i racconti autobiografici di Anna, riscoperti, sembrano zavorra per i pensieri di Baumgartner.

La vita non è più forte del dolore, può però riuscire a modificarlo quando si ha lo sguardo affilato di chi si lascia contaminare dalla realtà.

Nel romanzo di Auster (tradotto da Cristiana Mennella), perciò, siamo lontani dal dramma squadernato – in maniera autoptica oppure bollente – di altri libri che trattano temi del genere. Andando indietro nel tempo, ad esempio, è il caso dello straordinario Livelli di vita di Julian Barnes (2013), in cui lo scrittore affronta – prima in metafora e poi nel racconto – la morte di sua moglie (leggi anche qui). L’inglese parla di “tempesta di nostalgia”, di una frontiera quasi geografica da attraversare che chiama “tropico del dolore”, che si fa “verticale e vertiginoso”, pur non capendo se quello che manca “sia lei, la tua vita insieme a lei o ciò che di lei ti rendeva più te stesso”.

Che l’acqua se li porti

L'anno del pensiero magico. Didion

Ma se Barnes è analitico nel suo mettersi a nudo, Joan Didion nel suo L’anno del pensiero magico (2005) è feroce nell’ostensione della sua sofferenza per la perdita del marito.

“Quando piangiamo chi abbiamo perduto, piangiamo – nel bene o nel male – anche noi stessi. Come eravamo, come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto”.

Il dolore è irredimibile e senza scampo. Non è possibile uscire da descrizioni senza dramma, anche se la consapevolezza è un’altra.

“Se dobbiamo continuare a vivere, dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti. Che diventino la fotografia sul tavolo. Che l’acqua se li porti via”.

Eppure anche questo tipo di lutto sembra essere un passo avanti rispetto alla dissezione dell’assenza che fa C.S. Lewis in Diario di un dolore (1961). Nonostante la fede, la scomparsa della moglie lo lascia attonito.

“So che quello che voglio è proprio quello che non potrò mai ottenere. La vita di un tempo, gli scherzi, bere insieme, discutere, fare l’amore, le piccole e struggenti banalità. Da qualsiasi punto di vista, dire: “H. è morta” è lo stesso che dire: “tutte queste cose sono finite“. Sono parte del passato. E il passato è il passato, e questo è ciò che si intende per tempo, e il tempo è uno dei tanti nomi della morte”.

E il tempo è uno dei tanti nomi della morte

Diario di un dolore. Lewis

Date tali condizioni, il presente non esiste e il futuro non può esistere.

“Stringi i braccioli della poltrona del dentista o tieni le mani in grembo, la cosa non cambia. Il trapano continua a trapanare”.

Per questo il dialogo con la moglie è diretto, anche se in condizioni diverse rispetto agli anni vissuti insieme.

“Tu già conoscevi gran parte delle mie zone guaste. Se ora vedi di peggio, posso sopportarlo. E anche tu”.

Occhio però alle facili deduzioni: l’apparente levità di Baumgartner significa che abbia amato Anna meno di quanto abbiano fatto gli altri scrittori che si mettono al centro della scena? Il Narratore di Auster – per forza di cose onnisciente – ci spiega invece:

“Dieci anni dopo, Baumgartner si meraviglia che per lui sia cambiato così poco da quei primi mesi in cui ha sfiorato la follia. Logicamente, lui ha finto il contrario, e appena è riuscito a risollevarsi da terra, ha dato l’impressione di essere tornato nel mondo dei vivi… Le vecchie amicizie si sono approfondite, ne sono nate di nuove, e dopo un anno di quieta castità, segnato da mesti intervalli di masturbazione durante i quali si immaginava di nuovo a letto con Anna, ha iniziato a correre dietro alle donne per la prima volta in quasi quarant’anni. Segni di vita, o apparenti tali, che hanno indotto gli amici a credere che Baumgartner abbia scoperto come andare avanti senza Anna. Di solito ci crede persino lui… Si emoziona ancora, ama ancora, desidera ancora, vuole ancora vivere, ma nell’intimo è morto. Sono dieci anni che lo sa, e sono dieci anni che fa il possibile per ignorarlo”.

Quanti Baumgartner segreti conosciamo?

Baumgartner Paul Auster

Pur in questa condizione ineluttabile, con tutta evidenza basta il simulacro di sé per trasportare Baumgartner nel divenire di ogni giorno. Quanto basta per costruire un finale aperto che, oscillando fra scienza e sentimento, possa lasciare intravedere cieli nuovi e terre nuove da scoprire.

E allora si fa strada una domanda: che non sia anche la sopravvivenza (felice?) una forma di amore per chi non c’è più? Che il lasciare andare rappresenti un modo nobile per onorare lo straordinario passato che si è vissuto insieme? L’obiezione è facile: a differenza di Barnes, Didion e Lewis, la biografia di Paul Auster non registra davvero il lutto per la scomparsa del proprio partner di vita (anche se ha dovuto metabolizzare la morte di un figlio), eppure la letteratura è colma di esempi di scrittori che hanno saputo dare carne, sangue, psicologia e sentimenti a personaggi che percepiamo vivi più dei viventi. Davvero l’immaginazione non può farsi cronaca? Davvero nessuno di noi conosce dei Baumgartner segreti che sanno gestire contemporaneamente una quota ragionevole di dolore (che non passa) e di serenità (che sorprende)?

“E così, con il vento in faccia e il sangue che ancora gli sgocciola dalla fronte, il nostro eroe parte in cerca di aiuto, e quando arriva alla prima casa e bussa alla porta, si apre il capitolo finale della saga di S. T. Baumgartner”.

Perché in fondo la verità è proprio questa: di nessuna storia – neppure la più dolorosa – il capitolo finale è ancora stato scritto.

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Massimo Cecchini

Massimo Cecchini

Sono nato a Teramo un anno dopo l’uscita de “La dolce vita” e mi sono laureato in Lettere e Filosofia a Firenze, lavorando poi come bibliografo di storia medievale e artistica nelle maggiori biblioteche fiorentine. Dopo aver lavorato a lungo per i quotidiani “La Nazione” e “Il Centro”, e per l’agenzia Ansa, sono misteriosamente diventato inviato per “La Gazzetta dello Sport”.
Ho collaborato con tante radio e insegno presso l’Università “Luiss” di Roma e la “RCS Academy” di Milano. Lettore compulsivo, ho scritto libri sportivi, fra cui uno su “Muhammad Ali” (edito da Diarkos). Nel 2023, grazie a un guizzo di velleità senile, con il romanzo “Il Bambino” (edito da Neri Pozza) ho avuto il privilegio di essere candidato al Premio Strega e al Premio Cesari. Sono anche il chitarrista degli “Snipers”, perché la vita è troppo breve per fare solo poche cose.

2 commenti

  1. Molto interessante questo articolo in cui sono descritte le diverse storie che parlano di lutti e di come si può affrontare un dolore così grande e andare avanti nella vita!Personalmente concordo con Didon quando dice che ,per sopravvivere,bisogna abbandonarli,lasciarli andare ma mantenedoli sempre vivi nel nostro ricordo

    • In effetti, tutti questi grandi scrittori hanno messo in evidenza modi per affrontare il lutto simili, ma con sfumature diverse. Concordo con lei nel pensare, con Didion, che i morti vadano lasciati andare, anche perché credo che loro stessi – per il bene che ci hanno voluto – desidererebbero questo. Se poi, in una prospettiva cristiana, pensiamo che un giorno “non ci saranno più moglie né marito”, si capisce come la vita in se stessa sia sempre (e debba essere) più forte della morte.

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