Spiritoso e divertente, surreale e rocambolesco Mi chiamo Marcello Mastroianni di Armando Festa, pubblicato da Giunti, narra di un inconsapevole desiderio di paternità espresso nel modo più goffo possibile. È una commedia che potrebbe virare nel dramma ma la personalità del protagonista lo impedisce.
Sì, proprio così. Non è uno scherzo e neppure un nome d’arte: mi chiamo proprio Marcello Mastroianni. Ma ovviamente non sono l’attore.
Placido e indolente, schiacciato dal peso delle sue piccole menzogne quotidiane, Marcello Mastroianni trascina apaticamente una vita che non lo soddisfa.
Desidero con tutte le forze che il sole sorga ponendo fine a questa notte e allo stesso tempo che resti nascosto, rimandando quanto più possibile l’alba.
Un confronto insostenibile
Su Marcello grava il temperamento debole e flemmatico, ricevuto in sorte, ma anche il peso dell’impegnativo cognome, ereditato dalla famiglia. Ad ogni presentazione subisce il confronto con le aspettative disattese di chi fa la sua conoscenza e che non manca di ricordargli, con qualche fastidiosa battuta, che lui è proprio agli antipodi del mitico attore tanto amato e idolatrato dalle donne.
Dei personaggi interpretati dal grande Mastroianni, invece, Marcello possiede quasi tutte le caratteristiche del perdente: perennemente indeciso, distaccato, sornione, malinconico e timido, passivo. Impastato da una perniciosa pigrizia, non si stima.
Eppure è un giovane uomo con una bella compagna, Alessia, suo amore giovanile e la più corteggiata della scuola, ma lui non sa ancora come e perché lei lo abbia scelto.
Marcello Mastroianni lavora nell’affermato studio legale Smacca, dove riceve un ottimo stipendio in quanto nipote del titolare che lo ha accolto per generosità ma che non lo stima. Non gli sono stati affidati, perciò, incarichi di concetto ma è addetto, saltuariamente, a poche irrisorie mansioni.
Alla Smacca è lo Yellow Stormy Monday. Lo Yellow Stormy Monday viene una volta al mese ed è un lunedì (e qui il monday) in cui tutti i soci, i dirigenti e gli impiegati, stagisti compresi, si riuniscono in una sala per un’ora a fare brainstorming (e qui lo stormy): tirar fuori idee, proposte… tutti i partecipanti indossano un cappello giallo (e qui lo yellow) a mo’ di lasciapassare… una specie di elmetto da esploratore.
Neppure la passione per il cinema, che lo ha portato a conseguire una laurea specialistica difficilmente spendibile fuori da certi ambiti, lo motiva a rischiare e a cercare altrove la sua affermazione professionale. Trascorre la giornata lavorativa da Monssù Travet, seduto alla scrivania a fantasticare sui film che ama, in attesa della pausa pranzo e del rientro a casa.
Una tollerabile routine, interrotta dalle insopportabili serate tediose, da trascorrere con gli insulsi colleghi di lavoro di Alessia o con la sua famiglia: i cognati Massimiliano ed Eleonora, il piccolo Lorenzo e i nonni spocchiosi, Franco e Giordana.
Perdersi nelle scene dei film mai girati
Da un po’ di tempo Marcello ama perdersi nostalgicamente in scene di film che non hanno mai visto la luce, gli incompiuti… come forse si sente lui nel subconscio: un incompleto. Ideati e costruiti a tavolino dal regista, per i più svariati motivi quei film non sono stati realizzati. Quando affiorano alla sua memoria ne esamina con attenzione le cause dell’aborto e ne annota diligentemente i titoli su un quadernetto.
Compaiono nell’elenco Il Napoleon di Kubrick, Il Kaleidoscope di Hitchcock, Il viaggio di G. Mastorna di Fellini, Cuore di tenebra di Orson Welles e finanche Simbioti, un suo esperimento giovanile. Un cortometraggio da lui ideato per una regia che fosse a metà strada fra Ingmar Bergman e Charles Bukowski. Anche se al ricordo del misero fallimento dell’esperienza, per il selvaggio abbandono del set da parte di tutto il cast in massa (i suoi colleghi universitari) a causa delle centinaia di prove senza una scena girata, Marcello si incupisce. Segue il lancio repentino del prezioso quadernetto nel cestino dei rifiuti. Cosa potrà colmare l’insoddisfazione e il senso di inadeguatezza che lo perseguita? Forse un figlio… chissà.
Lo stagista
Da qualche settimana gli hanno affiancato – ironia della sorte – un giovane stagista, Pietro, che non sapevano dove collocare per carenza di spazi negli altri uffici. E così saranno in due ad annoiarsi, ma in compagnia questa volta, e complici in una straordinaria avventura, rocambolesca per i pacati standard di Marcello, che lo condurrà alla conoscenza di Anna e Davide e verso un nuovo capitolo della sua vita.
Parcheggio sotto un platano dalle foglie che sembrano pergamene ingiallite e varco l’ampio ingresso della Cineteca Nazionale. Mi guardo intorno. Su entrambi i lati si aprono corridoi su corridoi. Sulle pareti dipinte di bianco ci sono locandine di decine e decine di film, dagli albori del cinematografo fino ad arrivare a tempi più recenti.
L’unica soluzione è…
L’impossibilità di rimanere incinta, che procura tanta sofferenza ad Alessia, non ha mai turbato Marcello finché, a conclusione di una tragicomica e mortificante serata, trascorsa nella sterile e frustrante ricerca di Bau, il cane del piccolo Lorenzo che proprio Marcello ha smarrito, balza prepotente e catartica nella sua mente l’esigenza compensatoria di dare origine ad una nuova vita.
Galeotta sarà una chat alla quale si è iscritto, quasi inconsapevolmente come spesso gli è accaduto nella vita. Si ritroverà, così, coinvolto in una ricerca anomala e disarticolata della paternità.
Una delle prime cose che mi si è affacciata alla memoria il giorno in cui è morto [il padre]: io che mastico ciucciotti lecca-lecca sul sedile posteriore della vecchia Panda, mio padre alla guida che stona a squarciagola, mia madre accanto a lui che ride. Forse il senso della paternità è tutto in questa immagine. Un uomo alla guida, che ti conduce verso una destinazione a te ignota, e lo fa dando il massimo di sé quando stona.
Questo tema, centrale nel romanzo, risulta stimolante per una ricerca sociologica, o anche solo per una semplice riflessione, senza pretese, sulla genitorialità e sulle sue varie sfaccettature. Sulla retorica che spesso ammanta il problema. Sui bisogni primordiali e istintivi che, se soddisfatti, sembrano colmare il vuoto esistenziale, facendo balenare nell’individuo la speranza di una qualche forma di sopravvivenza alla propria dipartita.
Il protagonista con il complesso della mediocrità
Marcello, che narra questa storia in prima persona, è un personaggio che soffre del complesso della mediocrità. Potrebbe rappresentare il manifesto della generazione X, schiacciata tra i baby boomers e i millennials. La “generazione invisibile”, cresciuta durante la transizione fra il boom economico e la società digitale, alla ricerca tormentata di un suo spazio e di identità.
Mi chiamo Marcello Mastroianni
(ma non sono lui)
Armando Festa scrive per il cinema, la tv e la pubblicità. È copywriter freelance, autore di programmi televisivi, sceneggiatore di cortometraggi.
Ideato come sceneggiatura, Mi chiamo Marcello Mastroianni si è sviluppato come romanzo in corso d’opera. Privo, dunque, di esplorazione interiore e statico nella forma, mostra personaggi e fatti, piuttosto che raccontarli. Attende perciò, dice l’autore, di essere riportato a quella che era la sua primitiva intenzione di sceneggiatura cinematografica.
La storia, comunque originale, è nata durante uno dei lockdown della recente pandemia. A detta dell’autore, la stesura di questo ironico e divertente racconto lo ha rilassato e appassionato più che le pratiche di lievitazione e di impasti di farine alle quali, come tutti noi, si è dedicato per dare un senso alle giornate immote e frustranti, indimenticabili, del nostro apocalittico passato prossimo.