“Croker fissò il dito di Harry, socchiuse gli occhi e lo fissò di nuovo, tutto rosso in viso. A quel punto Peepgass le vide… le bisacce! Le bisacce! Erano saltate fuori! Tutte intere! Le grandi macchie di sudore sulla camicia del tycoon si erano allargate dalle ascelle alla cassa toracica e sotto le curve del petto robusto, fino a incontrarsi e sovrapporsi – due aree scure che confluivano all’altezza dello sterno. Sembravano proprio due bisacce attaccate alla sella di un cavallo.
Oh, se gli piacevano! Ancora una volta Harry ce l’aveva fatta! – aveva fatto saltar fuori le bisacce! – anche con un duro come Charlie Croker!”
Tom Wolfe, Un uomo vero
L’inventore del termine “radical chic”
Tom Wolfe irrompe all’improvviso sulla scena giornalistica americana l’8 giugno 1970, con un articolo intitolato Radical Chic: That Party at Lenny’s, che esce sulla rivista New York Magazine.
Wolfe racconta con un piglio giornalistico e la lingua del grande scrittore, la festa per la raccolta di fondi per le Pantere Nere organizzata da Leonard Bernstein e consorte nel loro attico a Park Avenue.
Oltre che per la geniale invenzione del termine “radical chic” – per cui i politici di destra di tutto il mondo dovrebbero pagare a Wolfe miliardi di dollari di diritti d’autore – l’articolo colpisce per il modo in cui lo scrittore racconta quello che definisce, con un’altra espressione felice, il Limousin Liberalism.
Il suo è un tipo di giornalismo nuovo e feroce che va oltre il new journalism di Truman Capote (leggi anche qui), e che negli stati Uniti non si è mai visto prima.
All’improvviso, come scrisse un critico, “una volpe era stata liberata all’interno del pollaio”.
Negli anni successivi, Wolfe continua a scrivere articoli e a pubblicare saggi, diventando uno dei giornalisti e critici di costume più famosi e apprezzati degli Stati Uniti.
Il passo successivo è quello di scrivere un romanzo
In un articolo pubblicato sulla rivista Harper’s e intitolato Stalking the Billion-Footed Beast, Wolfe mette su carta quello che sarà il suo manifesto.
Critica le mode letterarie statunitensi: il minimalismo, il post-modernismo, la metafiction piuttosto che il realismo magico, giudicandoli “solo rifugi sicuri per romanzieri che così possono distogliere lo sguardo dalla realtà”.
È per rimediare a questo triste stato di cose, che lui, nel suo primo romanzo, guarda ai grandi autori del realismo ottocentesco, soprattutto Balzac e a Zola, scrittori a cui attribuisce la massima realizzazione del romanzo e “un’immagine vera e potente degli individui nella società”.
Come scrive il critico Rand Richards Cooper:
“L’uomo che aveva fatto rivivere il giornalismo infondendolo nella narrativa, ora avrebbe salvato la narrativa consegnando ai romanzieri matita e taccuino e spingendoli fuori dalla porta”.
Il suo primo romanzo, Il falò delle vanità, che esce nel 1987 è una virulenta satira della New York degli anni Ottanta e ottiene un clamoroso successo. Dodici anni dopo, nel 1998, Wolfe pubblica il suo secondo romanzo: Un uomo vero, da cui è tratta la serie di cui parliamo oggi.
Un uomo vero, la serie Netflix
Charlie Croker (Jeff Daniels) è un potente magnate immobiliare di Atlanta. Ha da poco compiuto sessant’anni, che festeggia con grande sfarzo all’inizio dell’episodio pilota, quando la banca gli chiede di rientrare degli 800 milioni di dollari che gli ha prestato.
Come gli spiega Harry Zale (Bill Camp), l’uomo incaricato di riscuotere il credito, che ingaggia con Croker una gara a chi ce l’ha più grosso: “Il suo è uno dei peggiori casi di cattiva gestione che io abbia mai visto”.
Croker è sull’orlo della bancarotta. La festa, come si dice, è finita.
Se Croker si trova nei guai, il merito (o la colpa) è in gran parte suo.
Alla riunione in cui assistiamo allo scontro tra lui e Zale partecipa anche Raymond Peepgrass (Tom Pelphrey), un sottoposto di Harry Zale, che ha con il magnate un rapporto di amore e odio: lo ammira, ma detesta il modo in cui lo tratta e lo fa sentire una nullità.
Tra gli altri personaggi che animano la miniserie ci sono anche la sua nuova moglie trofeo e la sua prima moglie Joyce (Diane Lane). Ma soprattutto Jill Hensley (Chanté Adams), la segretaria del tycoon e suo marito Conrad (Jon Michael Hill) – entrambi di colore – sono di gran lunga i due personaggi più interessanti.
Conrad si trova nei guai per avere reagito con un pugno a un atto di brutalità da parte di un poliziotto – siamo pur sempre ad Atlanta – ed è stato picchiato e arrestato. Non solo: il giudice che deve decidere della sua sorte è un razzista fatto e finito e, in attesa del processo, lo fa rinchiudere in un carcere di massima sicurezza.
Charlie, che vuole bene a Jill e vuole aiutarla, affida il caso al suo avvocato migliore, anch’egli di colore, Roger White (Aml Ameen).
Malgrado questo, la situazione di Conrad si fa via via più grave: il congelamento dei soldi di Croker messo in atto dalla banca impedisce a White di pagare la cauzione proprio quando Conrad, che non ha rispettato una delle più sacre regole del carcere, quella di farsi gli affari suoi, rischia di rimetterci la pelle…
La miniserie può contare su un cast tecnico e artistico di prima grandezza
David Kelley (Ally Mc Beal, Boston Legal, Big Little Lies, solo per citare alcune delle numerose serie che ha scritto) è uno dei migliori showrunner sul mercato e Regina King, che dirige le puntate che contano, è un’ottima regista (leggi anche qui).
La storia di un uomo che ha costruito un impero facendosi sopravvalutare dagli altri, soprattutto grazie alla prepotenza e alla spacconeria, piuttosto che grazie a un sano senso degli affari – perché di questo parla la miniserie – è quantomai attuale: Donald Trump docet.
Jeff Daniels, poi, nell’interpretare Charlie Crocker è straordinario come sempre (vedi qui il trailer).
Eppure, malgrado tutto, Un uomo vero non funziona
I personaggi di Tom Wolfe non sono individui, ma tipi, la cui complessità risiede in gran parte in quello che indossano, comprano e bramano. Nei libri, grazie anche allo stile peculiare di Wolfe, funzionano benissimo. In televisione o al cinema no: se n’era accorto anche Brian De Palma, quando aveva portato sul grande schermo, Il falò delle vanità. Vanno “riempiti”, cosa che Kelley non ha fatto.
E così, più che Un uomo vero, la serie avrebbe potuto intitolarsi Un uomo vuoto.
Senza un antagonista come si deve, non c’è un protagonista vero
Croker non è mai messo a fuoco, né da Kelley in sede di scrittura, né dai personaggi che lo circondano, né dai suoi antagonisti che risultano incredibilmente fiacchi.
E, finalmente, vengo a parlare delle bisacce.
Nel romanzo è Harry Zale a provocarle alle persone che torchia. E infatti, come riportato nello splendido brano che ho messo in apertura di questo articolo, Peepgass (che nella miniserie guadagna una “r” diventando inspiegabilmente Peepgrass, chissà perché?) aspetta con ansia, conoscendo la fama di Zale, che le grosse macchie di sudore si manifestino sulla camicia di Croker.
David Kelley mantiene sia le bisacce che la scena nella sala riunioni della banca, ma cambia una cosa fondamentale. Nella miniserie è Peepgrass a parlare al suo capo delle bisacce, dicendogli che, quando si agita, Croker suda molto e che se Zale gliele farà apparire sulla camicia, avrà vinto.
Fare sudare l’avversario così tanto da fare in modo che le bisacce si manifestino, non è più una caratteristica dell’antagonista. E questo cambia tutto perché, in questo modo, il personaggio di Zale perde di potenza, tanto più che, alla prima difficoltà, abbandonerà il suo ruolo di persecutore di Croker. Lascerà il compito a Peepgrass che, purtroppo, non ha la forza necessaria per trasformarsi in un antagonista come si deve.
E senza un antagonista come si deve, ce lo insegnano tutti i manuali di scrittura, non esiste un protagonista vero.
E, senza un protagonista vero, ce lo insegna la logica, non esiste nemmeno una buona (mini)serie.