Gaza, la scorta mediatica è il libro di Raffaele Oriani che denuncia il silenzio dei media occidentali rispetto al genocidio di Gaza. Ne scrive in questo articolo Chiara Rivière che ha anche intervistato l’autore. In fondo trovate la sua intervista video.
Quando ho deciso di chiamarmi fuori dal gruppo Repubblica per allontanarmi il più possibile da questo massacro, l’ho fatto anche perché non riuscivo a liberarmi da un’immagine sempre più di dettaglio: sono passati vent’anni, e se sono ancora in vita ne ho quasi ottanta. Me ne sto tranquillo in casa come tanti anziani, quando bussano alla porta. Apro e c’è un bel ragazzo, venticinque, magari ventott’anni, ricci neri, occhi scuri, senza un braccio. Mi chiede perché vent’anni prima lavorassi per uno dei tanti giornali amici di chi lanciava le bombe su casa sua. Mi chiede la ragione per cui lui doveva perdere un arto e seppellire madre, padre, fratelli, cugini. Ovviamente non ho nulla da rispondergli, balbetto che no, che io non ero d’accordo, che scrivevo per la Repubblica ma mi occupavo di granchi blu e piste da bob. Lui prende e se ne va, ma è come se da quel giorno la sua presenza dilagasse in ogni angolo della casa.
Le parole qui riportate sono riprese da una pagina del libro Gaza, la scorta mediatica. Come la grande stampa ha accompagnato il massacro, e perché me ne sono chiamato fuori di Raffaele Oriani, ex giornalista del Venerdì di Repubblica. Oriani continua con una citazione:
Munther Isaac, pastore luterano di Betlemme, nella sua predica del Natale 2023 l’aveva detto:
“Noi palestinesi ci risolleveremo, l’abbiamo sempre fatto, anche se questa volta sarà più difficile. Non so voi però, voi che siete rimasti a guardare mentre ci sterminavano. Non so se potrete mai risollevarvi”.
La scelta di iniziare l’articolo con questo primo passo non è casuale. In questo estratto c’è tutto: dalla denuncia a un sistema informativo che “ha accompagnato il massacro”, all’onestà intellettuale di un giornalista che da questo ha deciso di prendere le distanze, anche in nome di quell’umanità che per troppi protagonisti dell’informazione sembra essere ormai passata totalmente in secondo piano.
Con Raffaele Oriani ho avuto l’occasione di confrontarmi direttamente. Abbiamo parlato del suo addio a Repubblica, accompagnato da una lettera di dimissioni che ha fatto il giro del web, ma abbiamo parlato soprattutto della mancata informazione che dal 7 ottobre in poi sta “scortando” il genocidio in corso a Gaza. È questo il tema portante del suo libro.
Che cos’è la scorta mediatica
Oriani utilizza volutamente l’espressione “scorta mediatica”, a partire dal titolo stesso, attribuendole un significato ben preciso.
Scorta mediatica – scrive – enfatizza il potere della libera stampa di contrapporsi alla prepotenza dei gruppi criminali quando prendono di mira i singoli che si oppongono. Si tratta di puntare un riflettore sulla persona a rischio, e mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica. […] Una scorta mediatica fa ancora la differenza. Perché la libera stampa fa ancora la differenza. […] La scorta mediatica che accompagna le persone in pericolo punta a fare quanto più rumore possibile. Perché quando il gioco si fa duro, chi non si fa sentire finisce per scortare ladri e assassini. Noi non ci siamo fatti sentire.
La scorta della grande informazione italiana, ma più in generale europea, è stata quella che l’autore più avanti ha definito “la scorta mediatica del silenzio”.
La scorta mediatica del silenzio
Nel libro, Raffaele Oriani dedica molto spazio al tema del linguaggio, non solo al livello giornalistico. Si sofferma sul peso che hanno determinate parole in determinati contesti e, in particolare, si sofferma sul peso del non detto.
Giusto per citare qualche dato, sempre riportato all’interno dell’opera:
In Gran Bretagna, una ricerca di Opendemocracy.net sul primo mese di copertura giornalistica di BBC One rileva che la parola “assassinio” è stata usata 52 volte per le vittime israeliane, mai per le vittime palestinesi, mentre per la parola “massacro” lo sbilanciamento segna 35 a 1. In America, è la rivista The Intercept a monitorare i primi due mesi di copertura di The Washington Post, Los Angeles Times e The New York Times: il termine “carneficina” è stato usato 60 volte per le vittime israeliane, solo una per i palestinesi; ‘massacro’ addirittura 125 volte per le vittime israeliane, solo 2 per i palestinesi.
E questo considerando che al giorno duecentesimo dell’attacco a Gaza si contavano ufficialmente 43.000 palestinesi morti a fronte di 278 israeliani.
Morti di serie A e morti di serie B
Alla luce di tali dati significativi, viene spontaneo chiedersi se la grande stampa europea e, più in generale, occidentale, faccia una netta distinzione tra “morti di serie A” e “morti di serie B’” come da molti sono stati definiti.
Viene naturale chiedersi se in questa storia non entrino in gioco anche due fattori ormai radicati nella nostra cultura: quello di un’islamofobia dilagante per cui, quasi istintivamente, gli arabi in quanto tali vengono associati ai terroristi. L’altro fattore è il senso di colpa che ancora oggi esiste nei confronti degli ebrei. Essendo da sempre vittime della Storia, quasi non è contemplato che possano trasformarsi in carnefici.
Dice Oriani a questo proposito:
È vero che c’è un sospetto rispetto all’Islam e c’è una vicinanza rispetto all’Ebraismo, ma mentre all’interno dei giornali tutto questo si traduce nello schema narrativo che abbiamo visto, invece nella società ho l’impressione che sia difficile trovare qualcuno che oggi giustifichi quello che sta accadendo a Gaza.
La condanna, ancora una volta, va a un sistema mediatico mainstream in parte complice persino delle ondate di antisemitismo che si sono riaffacciate nel mondo.
Se non si accompagna una narrazione, se per esempio ci si rifiuta, come si sono completamente rifiutati tutti i nostri giornali, di dar voce alle centinaia di ebrei che sono inorriditi da quello che succede a Gaza e si dà solo voce ai Presidenti delle comunità ebraiche che invece non sono per niente inorriditi e che accompagnano tutto ciò che fa l’esercito con l’approvazione totale, ecco che si dà un’immagine dell’Ebraismo che è falsata.
L’esercito di ebrei contro il genocidio
A tal proposito, in Gaza, la scorta mediatica assume grande rilevanza, a mio avviso, l’ultimo capitolo, intitolato: “L’esercito di ebrei contro il genocidio”. In queste pagine Oriani, come spiega anche nell’intervista, attraverso approfondite ricerche ha voluto dare voce a molti di quegli ebrei, specialmente tra gli intellettuali, che costituiscono un vero e proprio “esercito schierato senz’alcuna esitazione contro lo sterminio”.
Fra questi c’è Edgar Morin, sociologo francese di 102 anni, “che si è speso con incrollabile convinzione per i palestinesi di Gaza”. C’è l’intellettuale Moni Ovadia, “che da decenni impreziosisce con le sue riflessioni la lotta per i diritti dei palestinesi”. C’è Marione Ingram, scampata all’Olocausto ed emigrata in America, “che per giorni porta i suoi ottantasette fragili anni di fronte alla Casa Bianca, reggendo un cartello rudimentale con la scritta “STOP GENOCIDE IN GAZA”
E ci sono altre migliaia di ebrei che da ottobre scendono nelle piazze pretendendo che a Gaza cessi il fuoco e che non si massacri in loro nome.
Di fronte a tutto questo, il mondo dell’informazione tace
Sin dalle prime settimane di bombardamenti, ho avuto questa sensazione, credo corretta: noi stampa libera dell’Occidente abbiamo in mano l’interruttore per fermare o mitigare i massacri. E non lo stiamo usando.
Leggendo Gaza, la scorta mediatica (che l’autore definisce più un pamphlet) mi sono chiesta se davvero l’informazione, muovendosi diversamente, avrebbe potuto fare la differenza. Mi sono chiesta come delle semplici parole, utilizzate correttamente, avrebbero potuto fermare il menefreghismo di Netanyahu che, nonostante sia ormai accusato dei peggiori crimini di guerra, continua a perpetrare il massacro ai danni di un intero popolo.
Le giuste parole per rispondere a questo mio quesito le ha trovate Oriani:
Io non so come sarebbe andata ma sicuramente l’esercito israeliano non avrebbe operato in questo clima di totale impunità in cui ha operato. Siamo fatti così noi umani, lo conosciamo da bambini, ci spingiamo fin dove sentiamo qualcuno che ci riprende, ci sgrida, ci pone un limite. Ecco, quel limite, a tutti i livelli, non c’è.
Una riflessione difficile da non condividere. Gaza, la scorta mediatica è un libro che va letto. È un libro necessario perché apre gli occhi su una realtà – quella dell’informazione – molto più grande di noi che, per questo, dobbiamo imparare a conoscere. Affinché non si creino, anche nella società, tifoserie da stadio che vedono in campo netti schieramenti che non lasciano spazio a pensieri più critici, a contestualizzazioni.
Così non si racconta, così si accompagna un genocidio.
Ognuno di noi può essere quell’uomo di ottant’anni menzionato a inizio articolo. Ognuno di noi può ritrovarsi, un domani, ad aprire la porta di casa a un ragazzo mutilato che chiede il perché del vergognoso silenzio sul genocidio del suo popolo. Continuare a “geopoliticizzare”, ovvero a pensare ad una futura soluzione politica, mentre migliaia di vittime palestinesi sono brutalmente uccise o gravemente ferite dall’esercito israeliano, significa aver semplicemente perso quei valori che ci rendono umani. Cosa che ben sottolinea Raffaele Oriani nell’intervista video che gli ho fatto e trovate qui sotto.
Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti.
Oriani, con questo suo libro, si chiama fuori da questa vergogna e, insieme a lui, spero tantissimi altri. Con la consapevolezza di stare dalla parte giusta, quella che continuerà a urlare sempre: stop al genocidio!
Per approfondire:
– Inchiesta pubblicata dal “The Guardian” e dalla rivista israeliana-palestinese “972”
– Edward Said (palestinese), La questione palestinese, Il Saggiatore
– Ilan Pappé (israeliano), La pulizia etnica della Palestina, Fazi